Nichilista e sconfitta quando la Nouvelle Vague era tutta un altro film

Nato alla metà degli anni Cinquanta, il nuovo corso del cinema francese era figlio della destra post bellica

In À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), icona cinematografica della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard affida alla parola e al nome di Jean Parvulesco il compito di definire il ruolo della donna e il fine ultimo dell’uomo. Nel primo caso è una questione di estetica: «Un ruolo importante se è affascinante e se ha un vestito a righe e gli occhiali da sole».

Nel secondo ha a che fare con il superomismo: «Divenire immortale… E poi morire».

Nel film, che è del 1960, Parvulesco, che è un trentenne coetaneo di Godard, è interpretato da Jean-Pierre Melville, più vecchio di una decina d’anni, ma con alle spalle un’esperienza professionale e di vita più da padre che da fratello maggiore: ha partecipato alla seconda guerra mondiale, Dunquerque, Londra, la Resistenza, è un regista affermato e indipendente, con una sua casa di produzione. Romeno il primo, esule dal suo Paese dopo che il comunismo ha preso il potere, svizzero il secondo, di origine ebreo-alsaziana il terzo (Grumbach è il suo vero nome) ma nato a Parigi, ciò che li unisce è la scelta della Francia, un certo dandismo, molto nichilismo e anarchismo, l’idea che l’azione sia meglio del pensiero. Melville è un nostalgico della solitudine cameratesca del guerriero, il Godard di À bout de souffle racconta la corsa solitaria e la morte di un gangster romantico e immaturo in fuga da una società che disprezza, Parvulesco si sente un «proscritto» alla maniera di von Salomon, ideale combattente clandestino di un’idea d’Europa travolta dagli orrori della storia.

Dieci anni più tardi, quando ciascuno ha preso la propria strada, l’anarco-nichilista in odore di destra Godard è divenuto maoista, Parvulesco è passato dall’Oas al gollismo e Melville da padre putativo della Nouvelle vague è stato retrocesso a regista borghese e reazionario, sarà quest’ultimo a codificare in Le cercle rouge (I senza nome) ciò che era stato alla base di quel sodalizio così particolare: il nietzscheano «pathos della distanza», il vivere separati dal mondo, cercare di cambiarlo senza farsi cambiare, sapere che il compito è impari, ma non ci si può sottrarre, sapere che si muore soli, come soli si è vissuti.

Godard, Parvulesco e Melville sono soltanto alcuni dei nomi che popolano Quando la Nouvelle Vague era fascista (Settimo Sigillo, pagg. 238, euro 26), il bel saggio di Claudio Siniscalchi sul «nuovo cinema francese» che si venne delineando intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, esplose sul finire di quel decennio, ebbe uno spessore limitato quanto a durata e pellicole veramente significative, si snaturò diventando un fenomeno di moda per poi dare vita a un vero e proprio feticismo critico-cinefilo. Grazie a quest’ultimo, il cosiddetto «cinema d’autore» finirà con l’essere incasellato come espressione della cultura di sinistra, ma Siniscalchi dimostra che le cose non stanno proprio così, che quella rivolta contro il cosiddetto «cinema di papà» in realtà nacque a destra. Come ricorderà anni dopo Eric Rohmer, parlando dell’avventura dei Cahiers du cinéma: «Amavamo i film che la sinistra francese considerava di destra. Non amavamo il cinema sociale, il cinema di sinistra che piaceva ai nostri concorrenti di Positif. Facevamo delle provocazioni alla Rebatet, il vecchio critico dell’Action française».

I Cahiers, anno di fondazione 1951, vedono del resto la luce grazie a André Bazin, cattolico e seguace del «personalismo» anti-esistenzialista di Emmanuel Mounier e in contrapposizione a Les lettres françaises dove regna Georges Sadoul, stalinista, difensore del cinema sovietico e spregiatore di quello americano. I «giovani turchi» che intorno a quel mensile si raccolgono si chiamano Astruc, Truffaut, Chabrol, Rivette, i già citati Rohmer e Godard, sono legati a filo doppio ai cosiddetti «ussari» della destra letteraria francese, i Nimier, i Blondin, i Laurent, nemici giurati dell’impegno, del sociale, del collettivo.

Del secondo dopoguerra francese, Siniscalchi coglie benissimo il caso limite della destra, il suo paradosso di avere fra le proprie file un De Gaulle che è il figlio spirituale di Pétain, entrambi sono dei seguaci del pensiero di Maurras, e però suo nemico e poi suo carceriere. Un De Gaulle che ha salvato la nazione dalla vergogna della sconfitta e della collaborazione con il nazismo, ma che è visto dalla sinistra comunista egemone (che alla resistenza è arrivata tardi, per i suoi calcoli ideologici legati al patto di non aggressione fra la Germania di Hitler e la Russia di Stalin) come un nemico, una sorta di «fascista» rivisitato e in uniforme. L’altro paradosso è quello di un collaborazionismo che si ritrova obtorto collo a dovere coabitare con chi ha comunque fatto fucilare, imprigionare, esiliare alcune delle sue figure più rappresentative (Pétain e Maurras appunto, Laval, Brasillach, Céline, Morand, Rebatet…), e che però rivendica orgogliosamente il suo peso e il suo ruolo nella cultura nazionale della prima metà del Novecento, erede di quella tradizione rivoluzionario-conservatrice e antimoderna nata con la Rivoluzione francese. Una coabitazione da separati in casa che la guerra d’Algeria renderà ancora più invivibile, visto che sarà proprio De Gaulle, tornato finalmente al potere dopo un decennio e passa all’opposizione, a liquidare l’Algeria francese dopo che il governo della Quarta repubblica che lo aveva preceduto aveva liquidato l’Indocina e il sogno imperiale.

C’è insomma in quella destra post-bellica un coacervo di tensioni, intrecci non risolti, risentimenti che, specie nella generazione che alla guerra non ha fatto in tempo a partecipare, si coagula in un nichilismo esistenziale e in un istinto di rivolta. Si sentono comunque i figli della sconfitta, non riconoscono la legittimità politica e morale di chi si va alternando alla guida del Paese, più in generale disprezzano la società borghese che la incarna, nonché il pacifismo gesuitico di chi da sinistra grida contro il capitalismo guerrafondaio, ma non dice nulla sulla metà del Vecchio continente schiacciato dallo scarpone chiodato di Mosca.

Tutto questo aiuta a capire perché negli scritti come nelle opere cinematografiche, i «giovani turchi» della Nouvelle vague si muovano intellettualmente senza fare prigionieri e senza preoccupazioni di carattere sociale, di educazione morale, di elevazione e/o educazione delle masse. Come dirà Chabrol parlando di Truffaut: «Scriveva come Saint Just, appoggiato alla ghigliottina. Il suo stile era vivo fino al punto di imballarsi, le sue formule penetranti, le sue sentenze decapitanti».

L’altro elemento che Siniscalchi mette bene in evidenza è che in Francia l’interesse critico per il cinema come fenomeno artistico nasce a destra: la prima Histoire du cinéma è quella firmata da Robert Brasillach e Maurice Bardèche nel 1934… Quarant’anni dopo Henri Langlois, il mitico fondatore e direttore della Cinémathèque, confesserà a Lotte Eisner, sua collaboratrice e storica del cinema, che nel Novecento c’erano stati soltanto due grandi critici francesi: uno era Truffaut, l’altro Lucien Rebatet, il più collaborazionista degli scrittori fascisti, condannato a morte e poi graziato…

Naturalmente, il titolo del libro di Siniscalchi è provocatorio, ma varrà la pena di sottolineare che, soprattutto in Francia, e soprattutto applicato al campo intellettuale, quell’aggettivo ha più a che fare con un’estetica e un’etica che con un’ideologia e una pratica politica. Una delle migliori definizioni in materia l’ha data in L’Espoir, che è un romanzo del 1937, André Malraux, antifascista, combattente repubblicano in Spagna, comunista e poi gollista: «Un homme actif et pessimiste à la fois, c’est ou ce sera un fasciste, sauf si il n’y a une fidélitè derrière lui». Il pessimismo attivo è la molla comportamentale dell’azione, la mancanza di fiducia, nel senso di fedeltà, la fidélité malruciana in una classe sociale in particolare, nell’essere umano in generale, è la cifra di un individualismo solitario che può contemplare solitudini come la sua, ma non astrazioni avulse dalla realtà.

Parvulesco, dunque. Morto nel 2010, in Italia totalmente sconosciuto, ma in Francia circondato di interesse, una ventina di libri pubblicati, fra saggi, romanzi, trattati di geopolitica, attore in alcuni film di Rohmer, nel 1960 è ancora soltanto un giornalista che sulla rivista spagnola di cinema Primer Plano pubblica un’inchiesta in sette puntate sulla Nouvelle vague, di cui conosce benissimo gli autori, come fenomeno di ribellione e di protesta, marcato da forti assonanze con il fascismo, della nuova gioventù europea, anticipando di un quarantennio, scrive Siniscalchi, «le analisi di Antoine de Baecque, lo studioso più informato e oggettivo nel ricostruire la contiguità con la destra della parte più originale della moderna critica cinematografica francese». Dove Parvulesco si sbaglia è nel non tenere presente che, come scriverà Truffaut, «durante le nostre vite diveniamo persone differenti e successive» e che il consumismo degli anni Sessanta brucia il ribellismo iconoclasta dei Cinquanta. Lo psicodramma collettivo del Maggio francese chiude il cerchio: Truffaut diverrà sempre più un ingranaggio di quel sistema che avrebbe voluto far saltare, «il più coglione degli svizzeri pro-cinesi» sarà l’epitaffio di Godard scritto dagli studenti sui muri della Sorbona.

Il Giornale

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