Antonin Baudry, regista di “Wolf Call”: “Ho cercato di mettere in scena una tragedia greca nel mondo contemporaneo”

Al cinema dal 13 giugno, un film carico di tensione e di contraddizioni, che racconta la storia di un ragazzo e di un gruppo di uomini, del sottomarino su cui vivono e dei rischi che corrono in ogni momento

«Sono sempre stato appassionato di due cose. I film d’avventura e la tragedia greca. E quello che ho fatto, quello che ho cercato di fare, è stato di mettere in scena una tragedia greca nel mondo contemporaneo, ambientandola in un sottomarino nucleare». Antonin Baudry è il regista e lo sceneggiatore di “Wolf Call – Minaccia in alto mare”, al cinema dal 13 giugno con Adler Entertainment, un film carico di tensione e di contraddizioni, di paure e di speranza, che racconta la storia di un ragazzo e di un gruppo di uomini, del sottomarino su cui vivono e dei rischi che corrono in ogni momento.«Stavo lavorando a una commedia ambientata nel Medioevo quando ho pensato per la prima volta di girare questo film», dice Baudry. «Sono stato invitato a visitare un sottomarino. E non so dirle bene perché, ma sono rimasto affascinato dal modo in cui si parlava l’equipaggio, dagli spazi stretti, dal mare ovunque. Era tutto così incredibilmente magico e intenso. Ho avuto come un’epifania: ho visto un’immagine e mi è stato tutto immediatamente chiaro».

E si è subito messo al lavoro.
«Dopo quel momento, mi sono imbarcato altre volte, su altri sottomarini, e in tre settimane ho scritto la maggior parte della sceneggiatura. Ho condotto diverse ricerche e intervistato molte persone, dando sempre più forma alla storia che volevo raccontare».

È stato difficile girare un film del genere, con queste premesse?
«Ci sono state tante sfide da affrontare. Ma direi che la più grande di tutte è stata riuscire a dare il giusto spessore e la giusta forza al sonoro, che è forse il vero protagonista del film. Ho passato diverso tempo allo Skywalker Ranch di George Lucas per lavorarci».

Non è solo di guerra, o di incomprensioni, che parla “Wolf Call”.
«Il sottomarino non è altro che un microcosmo in cui un gruppo di persone deve imparare a convivere. L’unica differenza con la nostra società è che su un sottomarino si è sempre in bilico tra la vita e la morte. Ma lavorare insieme, aiutarsi e litigare è quello che facciamo anche noi, ogni giorno».

Che cosa rimane alla fine?
«Una domanda. E cioè: “che cosa ci può salvare?” Alleanze, accordi? O la fiducia che ognuno di noi può porre nell’altro? È su questo che volevo concentrarmi».

Lei che risposta si è dato?
«È un insieme di tutte queste cose. Non esistono sistemi perfetti. Non esistono soluzioni infallibili. Ma è proprio per questo che dobbiamo provarci, che dobbiamo focalizzarci su quello che ci rende così unici».

Il cinema, insomma, ha una responsabilità.
«Penso che un film possa influenzare le persone, addirittura aiutare le coscienze a formarsi. C’è questo libro, “Sapiens”, scritto da Yuval Noah Harari, in cui si teorizza che la differenza per l’essere umano l’abbia fatta la sua capacità di raccontare storie e di immaginare».

Per qualcuno, l’obiettivo del cinema è solo quello di intrattenere.
«Adoro i film hollywoodiani: li guardo con piacere, per divertirmi. Ma non credo che stiano facendo il loro lavoro – o almeno, non quello che ci si aspetterebbe. Il nostro mondo non è fatto di supereroi. Non è questo l’immaginario di cui abbiamo bisogno».

Perché, allora, non si investe di più in un cinema alternativo?
«Ci proviamo a fare cose diverse; ci proviamo ogni giorno. Ci sono tanti bei film. Ma è importante, secondo me, che l’Europa si impegni a creare un suo immaginario. Mi creda: ho vissuto a New York per cinque anni, e amo quel popolo. Ma penso che in Europa ci sia un’idea diversa del mondo».

Ora, poi, c’è lo streaming.
«Credo che sia una buona cosa che le persone abbiano più possibilità per guardare un film, o un qualsiasi altro contenuto. Ma l’esperienza cinematografica non è sostituibile. Dobbiamo difenderla. Dobbiamo sostenerla. Dobbiamo capire che per noi, come persone, come esseri umani, è un’esperienza quasi necessari, che ci aiuta».

Lei, quindi, la pensa come il Festival di Cannes? È contrario alle uscite in streaming e non in sala?
«Non so dirle con precisione quale sia la posizione di Cannes sullo streaming. So solo che è importante preservare l’esperienza cinematografica. E poi streaming e sala sono, in un certo senso, compatibili: non per forza in competizione».

Gianmaria Tammaro, lastampa.it

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