Ricky Tognazzi: «Non andai spesso da papà Ugo quando stava male, è il mio più grande rammarico»

«Le case dove ho vissuto erano botteghe di artisti: mia madre ballerina, mio padre attore, regista e appassionato di cucina. Sono stato nutrito a pane e cinema e, a un certo punto, ti domandi: cosa vuoi fare da grande?». Ricky Tognazzi, figlio di Ugo Tognazzi e Pat O’Hara, si è posto la domanda molto presto, dato che ha iniziato a frequentare i set del padre sin da bambino. «I miei genitori erano separati e quando l’estate trascorrevo le vacanze con papà passavo il tempo a vederlo recitare: lui vestito da messicano, da latin lover o da donna mentre impersonava la drag queen Madame Royale nel film del 1970 diretto da Vittorio Caprioli, il primo che affrontava il tema dell’omosessualità, che all’epoca era praticamente un tabù. E devo dire che quando lo vedevo atteggiarsi al femminile, il che gli riusciva molto bene, ho avuto un attimo di perplessità, ero preoccupato e mi dicevo: oddio che è sta succedendo, è mamma o papà? E anche un’altra volta mi ha fatto molto preoccupare, anzi piangere…».

Perché?

«Mentre girava Il Federale, nel 1961, ero davvero molto piccolo, ingenuo, ignaro di tutto… seguivo le riprese e, vedendo al lavoro i truccatori, il sangue finto, le botte finte, capivo che si trattava di una pura, innocua mascherata. Ma quando, qualche mese dopo, andammo insieme a vedere il film al cinema, di fronte alla scena in cui lui, orgoglioso di vestire la divisa da fascista arriva a Roma ignaro del fatto che la città era stata liberata, e viene assalito, rincorso dalla folla inferocita… beh mi sono sciolto in lacrime: mi sembrava tutto vero!».

In altri termini, era più convincente sullo schermo che dal vivo?

«Esatto. Papà cercò di spiegarmi con dolcezza che era soltanto un film, che non era successo niente, che era tutto finto. E lì ho capito che il cinema, a volte, è più potente della realtà. Siccome, però, in altre occasioni mi divertiva e mi faceva tanto ridere ho capito un’altra cosa fondamentale».

Quale?

«Che fare questo mestiere è meglio che lavorare. Per questo mi sento un privilegiato: beato colui che scambia il lavoro per tempo libero. Scoprire qual è la propria vocazione da giovani è una delle conquiste più importanti».

Attore o regista? Lei ha fatto entrambe le cose.

«Ugo mi sconsigliò di fare l’attore, dicendo: è un mestiere limitato, sei nelle mani degli altri, perché non provi a studiare da regista, è un lavoro più completo. Così, dopo aver studiato in Inghilterra dove vivevo principalmente con mia madre, venni in Italia e mi iscrissi alla scuola di segretario di edizione e produzione, dove ho imparato tutto il percorso per la realizzazione di un film. Per dieci anni ho fatto la gavetta, poi Ettore Scola mi chiama per il suo meraviglioso film La famiglia, dove interpretavo Paolino, il figlio di Vittorio Gassman, e l’anno dopo mi dà la possibilità del vero debutto da regista, nella serie Piazza Navona, per l’episodio intitolato Fernanda. Considero Scola il mio maestro, lo definisco il mio “preside”, mi ha insegnato tanto: è il mio padre putativo».

Ma quello vero, invece, che padre è stato: assente?

«Come dicevo prima, sono figlio di genitori separati ante litteram, oltretutto entrambi appartenenti al mondo dello spettacolo, e andavo a scuola dai preti, quindi ero figlio di due peccatori… Ma per me erano entrambi presenti, nell’ambito di quella che è diventata una famiglia allargata, avendo avuto in seguito tre fratelli».

Thomas è figlio dell’attrice Margarete Robsahm, Gianmarco e Maria Sole sono figli di Franca Bettoja: con chi dei tre si sente maggiormente in sintonia?

«Sarà perché ci vediamo poco, e questo in certi casi può essere un vantaggio enorme, ma vado d’accordo con tutti. Thomas e io ci somigliamo anche fisicamente, forse perché siamo entrambi nati da due donne nordiche. Gianmarco ha dei tempi comici eccezionali, è buffo, mi diverte e mi fa anche tanta tenerezza perché ha il candore che è tipico degli attori, perché per fare questo lavoro si deve restare un po’ bambini. Maria Sole è forse quella più tagliente, acuta, ha sempre la battuta pronta, sardonica… però resta la mia sorellina più piccola».

La famiglia, poi, ha continuato ad allargarsi con l’arrivo di Simona Izzo…

«Le donne che incontri ti modificano nel Dna: forse se avessi incontrato una donna chef, una “cheffa”, avrei aperto un ristorante in Messico. Invece Simona mi chiamò per interpretare il suo primo film, Parole e baci, che dirigeva con la sorella Rossella e il nostro incontro era un destino: anche lei è cresciuta a pane, scrittura e doppiaggio… però le nostre rispettive situazioni familiari non erano facili, facili… Io provenivo dalla mia unione con Flavia Toso, da cui era nata nostra figlia Sarah e anche lei aveva avuto un marito, Antonello Venditti, un figlio, Francesco… Insomma, una faccenda complicata».

E Simona voleva convolare a nozze…

«Eh già, ma io non mi sentivo pronto… E una volta, mentre andavamo in macchina proprio a trovare mia madre, lei mi fa una scenata che dura dal casello di Roma nord fino a Ventimiglia. Io cercavo di spiegarle che il matrimonio non era necessario, che avevamo una casa in comune, un lavoro in comune, persino il conto in banca in comune… e a un certo punto le chiesi: perché dobbiamo sposarci? La sua risposta fu solenne: per educazione… E su questo mi sono arreso. Quando però finalmente arrivammo a casa di mia madre, le dissi con tono brusco: ciao mamma, io e Simona ci sposiamo. Lei sorrise felice, ma replicò: Ricky c’è un altro modo di dare una bella notizia. E io le risposi: sì, ma non c’è altro modo per dare una cattiva notizia…».

Proprio una cattiva notizia non si direbbe, dato che il vostro legame regge da oltre trent’anni…

«Verissimo. Abbiamo creato la famiglia Tognizzo, una sorta di minoranza etnica, dove siamo tutti padri e madri dei figli e nipoti di tutti e due che amiamo, senza togliere nulla ai genitori biologici. Nel cuore c’è posto per tutti. Simona e io abbiamo anche un’ulteriore fortuna».

Quale?

«Oscar Wilde scriveva: il matrimonio è una croce che deve essere portata in tre… riferendosi all’amante incomodo. Nel nostro rapporto, il terzo incomodo è il lavoro che ci unisce e, in certi casi, ci divide: il dibattito accalorato tra noi è perenne, siamo molto diversi. Io sono pieno di difetti: pigro, ansioso, nevrotico… Sono un ottimo pessimista».

Nessuna qualità?

«Sono tenace, questo me lo riconosco… Aggiungo che mia moglie afferma di amare la mia parte femminile… a volte mi chiedo se ami anche quella maschile… mi auguro di sì. La verità è che chi fa il nostro mestiere deve essere un po’ maschio e un po’ femmina, fluido nei sentimenti: la mela deve essere intera, affinché una torta abbia più sapori».

A proposito di sentimenti, si è mai pentito di non aver chiesto scusa a qualcuno?

«Sensi di colpa ne ho tanti, ma soprattutto nei confronti di mio padre. Quando si ammalò, ho sottovalutato il suo grave stato di salute e non sono andato a trovarlo spesso in clinica dove era ricoverato. Quando finalmente ci andai, era troppo tardi: mi piacerebbe chiedergli scusa per questo. Ho messo il mio impegno di lavoro al primo posto rispetto alla sua malattia».

E l’impegno lavorativo, ora, si concentra sulla storia di una donna con una figlia malata di leucemia: «Svegliati amore mio» è il titolo della nuova fiction in tre puntate, su Canale 5 dal 24 marzo, con Sabrina Ferilli protagonista.

«Racconta la storia di una madre che lotta per la sua bambina di dodici anni, la cui unica colpa, se così si può dire, è quella di vivere a ridosso di un’acciaieria, dove lavora il padre, e di aver respirato, come tanti bambini, non la brezza del mare che è lì vicino, bensì il vento rosso foriero di morte. Un doloroso dilemma, un grande dramma accaduto a tante famiglie, il dover scegliere tra il morire di fame o avvelenati… che è un po’ quello che stiamo vivendo adesso tutti quanti, un amletico dubbio con cui dobbiamo fare i conti: chiudere tutto per la pandemia e salvarci dal Covid-19, oppure tenere aperto, salvandoci dalla fame? Quando abbiamo iniziato a scrivere questa storia non eravamo in pericolo pandemico, però dentro le acciaierie gli operai indossano da sempre le mascherine, per proteggersi dalle polveri sottili».

Quando la pandemia finirà, qual è il suo più grande desiderio?

«Ho tanta voglia di tornare a vedere film nelle sale e spettacoli teatrali. Per quanto le piattaforme, in questo brutto periodo, ci abbiano regalato le emozioni di cinema e serie tv, il buio della sala, quegli attimi prima che appaiano i titoli quando tutti trattengono il respiro come di fronte a un atto magico, sono cose irrinunciabili che non si possono riprodurre, né tantomeno rivivere seduti su un divano di casa. Jean Cocteau affermava che al cinema tutti gli spettatori sognano lo stesso sogno e io voglio rivivere questo sogno assieme agli altri… manca poco, spero».

Emilia Costantini, Corriere.it

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