SVEVA ALVITI: «DAGLI ABITI VINTAGE AL SET. COSÌ DALIDA MI HA SALVATO»

Sveva Alviti - DALIDADa zero a cento con un solo film, Sveva Alviti: da sconosciuta attrice a diva con Dalida, in cui interpreta l’iconica cantante italo-franco-egiziana dalla gran voce. Uscito nei cinema, il film è stato in testa al box office francese, e ora arriva da noi, ma direttamente su piccolo schermo, stasera su Rai 1.
Romana, spirito zingaro, fotomodella con il sogno (frustrato) del cinema, Sveva Alviti viveva tra New York e Los Angeles, quando il suo agente le propose di partecipare al provino che «mi avrebbe cambiato la vita»: non sapeva cantare, né ballare e neppure parlava il francese, eppure si è imposta. Nel film non sembra, è Dalida.
Dalida per i francesi è un mito: come l’hanno accolta?
«Già durante la promozione il pubblico ha sentito che provavo emozioni vere. Che ero Dalida e non un’imitazione».
Si è molto parlato di un suo malore in diretta tv.
«Se non fosse accaduto davanti alle telecamere, nessuno ci avrebbe fatto caso. Ero molto stanca e sotto stress. Il mio corpo mi ha mandato un avviso chiaro. È bastato che mi riposassi qualche giorno. Mi sono ripresa perfettamente. E infatti eccomi qui. “Sopravvissuta” anche a Sanremo».
Impressioni?
«È stata una giornata intensa e indimenticabile. Accoglienza incredibile. Un gran frullatore. Sono molto contenta ed emozionata, ancora oggi».
Cosa ha riconosciuto in sé della cantante?
«La fragilità e la forza. C’era un dualismo di fondo in lei, come in ogni donna, credo. Era Iolanda, donna fragile, che amava amare, frustrata nei rapporti con gli uomini e nel desiderio di una famiglia e dei figli. Ed era Dalida la star, che si nascondeva dietro a una maschera e che l’amore del pubblico rendeva, solo apparentemente, forte».
Emozioni a parte, come è entrata nella sua pelle?
«Sono stata lei per dieci mesi. Ho visto di tutto, documentari, interviste, show tv. Suo fratello Orlando mi ha molto aiutata, mi ha guidata. Ci sono state le sue canzoni: non è la mia voce quella che si sente nel film, ma io le ho cantate tutte. Ed è stata la mia interpretazione di Je suis malade a convincere la regista Lisa Azuelos a scegliermi. Come ha detto Meryl Streep: «Metti la tua sofferenza e fanne arte». Ecco, è quello che mi è accaduto con lei. Abiti, pettinatura, il trucco, la gestualità: è stato un lavoro totalizzante da cui ancora non sono uscita. Da ragazzina ho praticato il tennis in forma agonistica: questo mi ha dato disciplina, testardaggine e capacità di concentrazione che mi hanno molto aiutata».
Con Dalida condivide una vita randagia.
«Durante la mia infanzia ho molto viaggiato seguendo la mia famiglia. Un po’ mi è rimasto. Eravamo a Roma da qualche anno quando la mia sorellina Sara mi ha iscritta a un concorso per modelle. Sono arrivata seconda e mi hanno proposto di andare a New York. Avevo 17 anni e la moda non mi interessava. Ma mi dava la possibilità di studiare recitazione in America. Per anni mi sono mantenuta con il lavoro di fotomodella avendo il cinema nel cuore: il mio sogno fin da bambina».
Un amore nato come?
«Dai film del neorealismo che mio padre ci mostrava. È stato Deserto rosso a farmi desiderare di diventare attrice. A New York mi sono iscritta a una scuola. Ho iniziato a recitare: teatro, corti, film indipendenti. Ma non riuscivo a mantenermi. Era la moda a farlo. Con mia sorella abbiamo una linea di abbigliamento vintage, Sis New York, che va molto bene. Iniziavo a credere di non essere quella brava attrice che pensavo. E avevo quasi deciso di smettere. Perché continuare a subire delusioni? Dalida ha fatto bene alla mia carriera e al mio ego».

Adriana Marmiroli, il Secolo XIX

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