‘Lontano da qui’, Maggie Gyllenhaal diretta da Sara Colangelo: “La mia storia allegorica, contro la mediocrità”

Ventitrè giorni per girare una piccola grande commedia, remake di un film israeliano, che vede per protagonista una maestra alle prese con le frustrazioni famigliari e un bimbo prodigio. Che scrive poesie di grande profondità, toccandole il cuore. Dietro la macchina da presa la giovane regista italoamericana applaudita al ‘Sundance’

Arriva oggi sugli schermi un piccolo gioiello, Lontano da qui, firmato da Sara Colangelo. Racconta di Lisa, Maggie Gyllenhaal, insegnante in un asilo a Staten Island. Governa con amore e cura la sua classe e a casa si sente trascurata dai due figli ormai cresciuti, con aspirazioni e desideri distanti dai suoi. Per sfuggire alla routine s’è iscritta a un corso di poesia tenuto da un egocentrico insegnante, Gael Garcia Bernal, che mostra di non apprezzare minimamente i suoi tentativi di scrittura.

Ad aprirle una finestra sul talento è l’incontro con un piccolo allievo che, a cinque anni, riesce a comporre a voce piccole poesie di grande sensibilità: accompagnare e custodire questo talento diventa per lei un’ossessione, una vera e propria missione. Sara Colangelo, italoamericana, è stata premiata come migliore regista al Sundance Film Festival di quest’anno. I suoi cortometraggi erano stati proiettati nel festival di tutto il mondo, il suo debutto, Little Accidents, era stato presentato in anteprima al Sundance. Lontano da qui è un adattamento di Haganenet, il film di Nadav Lapid. Abbiamo raggiunto al telefono la regista.

Questo suo film è un adattamento del film israeliano del 2014. Com’è nata l’idea di una nuova versione americana?
“Mi hanno chiesto di farlo due produttrici donne che avevano lavorato all’originale e avevano i diritti. Il regista originale ci ha dato benedizione. Il film originale affronta temi importanti, ma specifici del contesto culturale dell’Israele moderno. Io volevo rendere questa storia più accessibile. Guardarla da una prospettiva femminile, creare un personaggio di insegnante unico. Perciò dovevo dare una vita completamente diversa all’insegnante, una famiglia diversa, una connessione diversa e originale all’arte. Quella interpretata da Maggie Gyllenhaal è una donna appassionata, infuocata, meno passiva rispetto a quella originale. Non migliore o peggiore, solo diversa. Ho visto il film israeliano una sola volta e l’ho amato, ma poi l’ho messo via. E Maggie non l’ha mai visto. Volevo creare qualcosa che fosse profondamente personale ma anche una storia allegorica: in questo modo poteva essere diversa, americana, anche nel senso che mi dava l’occasione per esplorare lo spazio della storia dell’arte in America”.

In che modo?
“Abbiamo iniziato a lavorare all’inizio del periodo elettorale. La sensazione che Trump potesse diventare presidente e che avrebbe potuto tagliare i fondi all’arte. In un mondo governato da cellulari, device, videogiochi quale tempo e spazio ci lascia per creare arte o consumarla in un modo che abbia significato?”.

Come ha coinvolto Maggie Gyllenhaal?
“Ho mandato la sceneggiatura solo a lei. Ha accettato e siamo partiti pochissimi giorni dopo. Magnifico poter realizzare così velocemente un sogno”.

E Gael Garcia Bernal nel ruolo di insegnante di un corso di poesia?
“È interessante la connessione alla poesia di Gael, che ha girato il film su Neruda, che ama la poesia. Ci siamo incontrati per un caffè e mi ha detto; non voglio mettere in scena un cattivo. Il suo personaggio è quello di insegnante carismatico, ma anche fondamentalmente interessato alla protagonista Lisa solo quando, improvvisamente, scopre qualcosa in lei, l’idea di avere davanti un diamante grezzo. Non ama il lavoro che questa allieva gli ha presentato prima. È duro con gli studenti e molto soggettivo nella valutazione. Questo mio film non è solo sul genio artistico ma anche su come noi reagiamo alla nostra mediocrità, come la gestiamo”.

La protagonista si immerge nella missione di valorizzare il talento del suo alunno, oltrepassando i limiti.
“La sfida del film era raccontare la forza di questa donna malgrado di errori. Una donna che continua a dare e dare senza ricevere niente in cambio. Non è compresa, né lei né la sua arte. E il talento del suo piccolo allievo diventa il suo unico modo per avere accesso alla creatività, ed è una cosa triste. Al montaggio ho rivisto la scena in cui è in classe e tiene un piatto di merende e tutti i bimbi arrivano e arraffano il cibo. Mi è venuto da piangere per l’espressione potente di Maggie mentre i bimbi che afferrano naturalmente il cibo e o pensato al fatto che molte donne continuano a dare per tutta la vita, senza avere qualcosa in cambio che le nutra. E c’era qualcosa che volevo esplorare in questa quieta e dolce insegnante apparentemente perfetta che poi deraglia in una sorta di follia. Mi piace il sentimento di ambiguità del sentimento che nasce nel pubblico. Che è arrabbiato con lei che commette tutte queste trasgressioni, scavalcando i legami familiari. Ma poi alla fine ti chiedi anche se forse non avesse ragione lei e allora il pubblico si trova anche a giudicare se stesso”.

Lei è di origini italiane.
“Sì, mio padre è abruzzese, di Corsigna, piccola città vicino a Sulmona. Ci vado spesso. La cultura italiana è una delle cose che mi lega a Maggie che si è spostata in Italia e ora sta preparando il suo progetto tratto da Elena Ferrante, su La figlia oscura. Ne abbiamo parlato tanto e penso che sarà bellissimo. Maggie mi ha regalato I giorni dell’abbandono, che ha amato molto e c’è la scena del mio film in cui lei si guarda allo specchio che è una citazione di quel romanzo”.

Sua madre è americana. E lei parla pochissimo italiano.
“Mia madre è nata in Usa ma da genitori italiani che sono arrivati in Massachusetts nel 1947. Sono della stessa città di mio padre. Mamma è tornata d’estate al paese e s’è innamorata. Mio padre è venuto in America ma è molto italiano. E ha voluto tenere la cittadinanza. Io sono cresciuta guardando il cinema italiano su Rai international. Da Umberto D. a La strada e Il conformista: ero troppo piccola per capire fino in fondo ma mi sentivo coinvolta: tante emozioni arrivano ai bambini anche se non comprendono fino in fondo la poetica di un autore. Poi ho iniziato a studiare musica, il pianoforte e il violoncello. Andavo bene anche nelle competizioni che si fanno qui in America, compongo anche da quando ho 17 anni, ma poi ho iniziato a sentire troppo la pressione nel fare una scelta definitiva. Oltre alla musica amavo la scuola, la fotografia, la scrittura. Così ho mollato. Scrivendo questo film ho pensato anche alla pressione che esiste sui bambini e sul loro bisogno di fare contenti gli altri. Ha aggiunto anche che il sistema americano è anche molto competitivo e alcuni insegnanti sono piuttosto esigenti. Ora la musica è estremamente importante per me quando dirigo e scrivo, c’è qualcosa di fortemente narrativo nella musica”.

E quando ha deciso per la regia?
“L’idea, la passione è nata ai tempi del college, poi ho studiato anche in Italia, sono venuta a Bologna per un anno, ho scoperto alla Cineteca un mondo di film di autori, cose mai viste crescendo. Tornata a New York ho iniziato a lavorare come assistente da un avvocato, era l’epoca della grande crisi finanziaria, il 2004. E quel mondo mi ha affascinato: la psicologia dei clienti, i rischi di chi ha messo in gioco vita e carriera per guadagnare di più. Ho capito che volevo raccontare storie e persone. Sono entrata nella New York University”.

Quali autori italiani contemporanei le piacciono?
Matteo Garrone, ricordo ancora il momento in cui ho visto Gomorra a New York, sconvolta dalla potenza di quelle immagini. Luca Guadagnino che riesce a fare film grandiosi e intimi. Alice Rorhwacher, folgorata ai tempi di Corpo celeste. Attendo con ansia di vedere Lazzaro Felice”.

Arianna Finos, Repubblica

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