Un gioco in cui dev’essersi molto divertito, a giudicare dai risultati di mezzo secolo di carriera.
«Una volta Massimo Troisi mi disse: beato te che fai così tanti personaggi, e di tutti i tipi. A me tocca sempre ripetere Ricomincio da tre. Anche Chaplin faceva sempre lo stesso personaggio – gli risposi-; io, invece, ogni volta faccio una fatica boia. Sei fortunato: ti auguro di fare Ricomincio da 4, da 5, da 6».
Ma questo modo di prendere il mestiere e la vita – non le ha mai creato problemi?
«Al contrario. Il mio primo grande exploit il televisivo David Copperfield – fu tale che a soli ventitrè anni il successo avrebbe potuto mandarmi con la testa fuori orbita. E invece di quell’esaltazione collettiva (la gente ancora me ne parla) io ricordo soprattutto l’acne giovanile che mi tormentava, e che i truccatori dovevano nascondere sotto chili di cerone».
E questo suo pragmatismo non ha mai stupito i più seriosi fra i suoi colleghi?
«Tutti i grandi con cui ho lavorato e ho lavorato coi più grandi – giocavano, come me. Non si prendevano mai troppo sul serio. Fellini era capace di chiamarmi alle quattro di notte: Ehi Pipistrello mi chiamava così – m’hanno regalato dell’ottimo parmigiano. Vieni, che ci facciamo le tagliatelle alla bolognese. A Pasolini piacevano le cose semplici: girare per trattorie sgangherate, passeggiare al chiaro di luna. Perfino Visconti, poverino, prendeva in giro sé stesso quand’era sulla sedia a rotelle. E la Magnani? Attento: è terribile!, dicevano. E invece in scena faceva gli scherzi senza che il pubblico se ne accorgesse, agli intervalli raccontava le barzellette. Anche a recitare, andava di getto, senza tante menate. L’unica cosa che la preoccupava sul set era il suo viso: sapeva di averlo particolare. Peppino, qual è il lato migliore?, chiedeva al mago delle luci, Rotunno. Del resto anch’io, dopo cinquant’anni di questo mestiere, ancora non so come si entra in un personaggio. E se qualcuno lo sa, me lo spieghi».
Nonostante lei sia ritenuto uno dei più grandi attori italiani, da trent’anni non fa più teatro. Perché?
«Lo facevo ai massimi livelli. Ma ad un certo punto trovai sempre più insopportabili i critici. Giudicavano in modo peggio che superficiale, addirittura stupido, le nostre enormi fatiche. Il massimo lo raggiunse quello che definì il mio Romeo, nello spettacolo di Zeffirelli, colorito. Ma che c’entra colorito, con Romeo? E siccome, ripeto, non ho mai avuto il sacro fuoco, nè sono di quelli che vanno da Marzullo a proclamarsi toccati dalla Grazia, ho preferito allontanarmi dalle scene».
Recentemente il destino ha incrociato due suoi grandi amici: quando Franco Zeffirelli è morto, Lina Wertmüller ha detto che l’Oscar alla carriera, invece che a lei, avrebbero dovuto darlo a lui.
«Fui proprio io, a presentarli. Lui geniale, lei pure: dovevano conoscersi. Finì che Franco diresse una commedia di Lina, Due più due non fa più quattro, facendone un grande successo. E del resto Lina ed io, l’Oscar, l’abbiamo già sfiorato quarant’anni fa, con le nomination per Pasqualino Settebellezze. Beh: meglio tardi che mai».
Paolo Scotti, ilgiornale.it