La felicità è un sistema complesso quando ti illumina devi godertela: Miriam Leone l’ha imparato

L’appuntamento è alla Pinacoteca di Brera, a Milano. Mentre attendo sotto il portico, cerco il volto di Miriam Leone tra i turisti e gli studenti di Belle Arti che sciamano all’ombra della statua di Napoleone, nudo e olimpicamente indifferente al brumoso novembre milanese. Da qualche parte, molto vicino, anche Miriam aspetta: il suo sguardo indugia e fantastica, come d’abitudine, sulle persone che ha intorno. Si fa qualche domanda anche sul mio conto, confesserà poi davanti a un caffè, la donna bassina che all’improvviso si sbraccia per attirare la sua attenzione. Provvisoriamente biondissima come Eva Kant, l’eroina dei fumetti a cui dà corpo e sguardi fatali in Diabolik, il film dei Manetti Bros. che il 15 dicembre debutta in anteprima assoluta al Noir in Festival e il 16 arriva nelle sale, con l’impeccabile chignon per una volta sciolto, come un’aura elettrica intorno al viso, mi chiedo come si possa comprimere la sua presenza esuberante e fosforica nelle due dimensioni di un fumetto in bianco e nero.

Deve leggermelo in faccia perché, a partire dal nostro incontro, si adopererà con entusiasmo perché riesca a vedere il film prima di scrivere, e forse constatare da me la vis istrionica profusa, a confronto della quale, e non è spoiler, il trasformismo di Eva Kant, con le sue mille maschere, impallidisce. “È stata una metamorfosi estrema per me”, ammette quando ci rifugiamo nel Caffè della Pinacoteca, “ma necessaria: sono fiera e grata di essermi donata a Eva, a partire dai capelli. Val la pena di tenersi qualche doppia punta in più per interpretare uno dei più bei personaggi femminili di sempre. E vivere nel linguaggio, nelle ispirazioni, nello stile dei favolosi anni Sessanta”.

L’ha frequentata, ha indossato il suo strepitoso guardaroba, sciolga l’enigma: chi è Eva Kant?

È la prima donna, colei che salva Diabolik, non solo in senso angelico-cavalleresco, ma anche in maniera pragmatica e sostanziale. È un archetipo, eppure è reale, concreta. Attraverso Eva entriamo in Diabolik, non è un suo satellite, ma un pianeta, con la sua traiettoria: e lo ama davvero.
È una lady di gran classe e una moglie amorevole, una spietata vendicatrice e una ladra innamorata del bello. Arriva a Clerville con tutti i suoi bagagli (e ringrazio Fendi per avermi prestato bauli originali della stessa epoca, autentici pezzi da museo), vedova di un marito che ha cercato di farla fuori e, ça va sans dire, ha avuto la peggio.

E il Diabolik di Luca Marinelli com’è?

È stato un piacere lavorare con Luca. Assieme a lui, a Valerio Mastandrea (l’ispettore Ginko), e ai Manetti Bros. ci siamo ritrovati, con audacia e incoscienza, a rendere tridimensionali personaggi stampati in bianco e nero sulla carta. I giudici più severi saranno i fan del fumetto.

Innamorati della prima ora di quest’eroina che ruba la scena al protagonista.

Nel rappresentarla abbiamo cercato di non tradire la volontà delle due donne che l’hanno creata, Angela Giussani e sua sorella Luciana, a cui ho dedicato tutto il mio lavoro. Il marito di Angela aveva una casa editrice, l’Astoria. Lei, ex modella, una delle prime donne a ottenere il brevetto di volo, cominciò a immaginare le avventure di Diabolik nel tinello di casa, assieme alla sorella. Lì fondò l’Astorina, casa editrice che ancora resiste. Ringrazio anzi Mario Gomboli, l’attuale direttore, al fianco delle sorelle dal 1966, per le cose belle che ha detto sulla mia interpretazione. Un pensiero va anche alla memoria di Enzo Facciolo, che ha disegnato Eva, regalandole l’eleganza e la grinta rivoluzionaria delle sorelle Giussani, che hanno precorso i tempi immaginando un’eroina femminista prima del ’68.

Che ha la prestanza di un uomo: come ha fatto?

È stato il mio preparatore atletico a illuminarmi: “Ti hanno sempre detto che non ti puoi difendere perché sei donna”, mi ha spiegato, “ma ti devi convincere che tu con un pugno potresti spaccare una mascella”. Il lavoro su Eva Kant ha liberato una parte di me… piuttosto pericolosa (ride).

Come funzionano sullo schermo i dialoghi asciutti del fumetto?

Bene. Lo spazio qui è tutto per gli sguardi, la fisicità. Ammetto, però, che pronunciare senza un sussulto certe battute così esclamative è stata un’impresa. Provi lei a dire, senza ridere: “Dammi la Scopolamina!, “il Pentothal!”. E poi la mia preferita: “Mogliettina, un corno!”».

Su quale alchimia si regge il rapporto tra Eva e Diabolik?

Sono lo Yin e lo Yang, il bianco e nero, il cerchio perfetto: ciascuno dei due mescola in sé quote di maschile e di femminile, una punta di bene o di male. Insieme sono ciò che resta dopo l’ultima riga delle favole: non si lasceranno mai.

Eppure, nel chiuso del loro rifugio, sembrano condividere un ménage ordinario.

Al netto dell’adrenalina dei colpi, sembrano un po’ Sandra e Raimondo: la colazione con il giornale, i battibecchi. Una coppia borghese. Ma solo dentro casa possono essere se stessi, fuori indossano sempre una maschera. Solo Eva Kant conosce il vero volto di Diabolik.

E non è questa l’intimità, fuor di metafora?

Certo: solo chi ci ama ci vede davvero per come siamo.

Questa storia delle maschere, da attrice, le suonerà familiare.

A me come a tutti: è il famoso Uno, nessuno e centomila pirandelliano. Ma io non ho una vita straordinaria come Diabolik. 

Se ne rammarica?

Nessun rammarico, sono fortunata: posso scegliere su cosa e quanto lavorare. Però ci sono momenti, come ora, in cui non vorrei ripartire. Sono stata lontana più di due settimane e mi sono appena sposata. Non mi fanno paura i sacrifici, rispetto i contratti, ho un gran senso del dovere. Ma non voglio che questo mestiere mi divori la vita, o non abbiamo imparato niente dalla pandemia.

Cosa avremmo dovuto imparare?

Che la felicità è una conquista, si compie attraverso le scelte e ha bisogno di cure: quando t’illumina, devi imparare a godertela. Che il mondo del lavoro dovrebbe iniziare a contemplare il tempo per l’amore, la famiglia, la cura di sé, e l’esistenza, anche quella degli artisti, ha senso se la realizzazione professionale e quella umana sono in equilibrio. Come può una madre lavorare a certi ritmi e permettersi di amare un figlio senza farlo crescere ad altri? Sono domande che tante donne si pongono. Bisognerebbe sostenerle di più.

Il tema della conciliazione è finalmente approdato sui set?

Se ne comincia a parlare e c’è ancora tanta strada da fare, ma credo che l’individualismo sfrenato degli ultimi anni stia cedendo il passo a uno stile di vita più consapevole e con meno sensi di colpa per il tempo dedicato alle attività dell’animo.

È popolare e apprezzata, ha appena vinto un Nastro d’argento, è soddisfatta di sé? 

Ci sto lavorando: mi sembra sempre tutto transitorio e migliorabile. Però, dopo questa pandemia, in cui grazie al cielo la mia famiglia ha avuto fortuna, ho imparato a guardare il mondo con occhi diversi. Quando è scattato il lockdown eravamo ospiti di amici in Toscana: siamo partiti per il weekend e siamo rimasti loro ospiti tutto il periodo, con me avevo solo due paia di slip.

Quel che si dice l’essenziale.

Come quando da piccola preparavo lo zaino per gli scout, avevo un foglio con i disegni che indicavano il necessario: l’intimo, le calze, un paio di pantaloni, un maglione. In una bacinella, la sera, mettevo a mollo gli indumenti per l’indomani. Dopo le prime due settimane di paura, mi sono rilassata e mi sono dedicata ad attività nuove: andare a cavallo, sellarlo, pulire la stalla.

Un’altra lezione della pandemia?

Sempre la stessa: ho capito che non sono soltanto quello che faccio, ho fatto un respiro profondo e sono ripartita con il giusto distacco, mi sono presa anche il tempo per organizzare un matrimonio.

Soli e senza maschere, come Diabolik ed Eva: è stato allora che avete deciso di sposarvi?

Senza maschere e senza la loro adrenalina. Con pochi indumenti e la ricrescita in testa, abbiamo raggiunto l’essenza del rapporto. Ci siamo guardati e quasi non c’è stato bisogno di dirlo.

Il matrimonio lo abbiamo seguito sui social. E il viaggio di nozze?

Per ora lo stiamo sognando. Domani lascio di nuovo Milano, mi aspettano Diabolik 2 e 3.

Come vive una catanese a Milano?

Bene, qui ci sono la mia casa, la mia famiglia, mi sto facendo nuovi amici, ho già due paia di friulane e le ortensie stabilizzate (ride). E se a Milano ho trovato un posto in cui fiorire è perché porto sempre a innaffiare le mie radici nella mia terra magica e vulcanica.

Elle.com



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