Pierfrancesco Favino racconta il buio della sua adolescenza: “Era una specie di lobotomia”

Pierfrancesco Favino è uno degli attori italiani più apprezzati, che racchiude in sé fascino e talento. Ha raggiunto in ritardo la notorietà ma non ha mai rincorso il successo con ossessione.

Pierfrancesco Favino ha sempre avuto i suoi tempi e li ha rispettati, non ha mai inseguito nulla che non fosse solo il suo desiderio del momento, fin dall’adolescenza, non semplice, raccontata a cuore aperto a Vanity Fair.

“Sono cresciuto con tre sorelle, come in Cechov, e non ho mai diviso il mondo in uomini o donne. Il genere femminile per me non ha mai rappresentato un salto al di là del muro né lo scoglio pazzesco che è per tanti maschi”, dice di sé Favino, un ragazzo che ha saputo fin da piccolo andare oltre gli stereotipi di genere, senza la paura di esporre anche il suo lato più femminile. Per un lungo tempo ha lasciato ogni mattina una rosa bianca davanti alla porta della sua prima fidanzata, finché lei, dopo tre anni, non ha deciso di lasciarlo. Ha un rapporto complicato, Favino, con l’abbandono, che probabilmente nasce quando suo padre decise da un giorno all’altro di trasferire la famiglia da Roma a Fregene: “Entrai rapidamente in una specie di buio. Mi sentii sradicato all’improvviso dal mio ambiente e fu difficile ricostruire le amicizie. Quelle dell’infanzia le persi una dopo l’altra.”

Un trauma non indifferente per un ragazzo che si stava affacciando nell’adolescenza, quella fase nella quale ci si sente di dover combattere contro gli adulti. “Non avevo amici che mi spalleggiassero. Ero solo contro una forza, i miei genitori, che era obiettivamente più potente della mia. Non avevo nemmeno la forza di valicare il limite del proibito perché non farlo in compagnia perdeva di senso. Fino a 25 anni non bevevo, non fumavo e affogavo la noia nello sport. Ho avuto un’adolescenza tardiva e forse è stato meglio così”, dice Pierfrancesco Favino prima di parlare del buio dell’adolescenza. “Quello che ti spegne la curiosità, ti svuota e ti toglie energie. Mi si era spenta la testa. Era una specie di lobotomia. Di sonnolenza apatica. Intorno a me divenne tutto ovattato”, continua Favino, ricordando che quel periodo lo pagò con una bocciatura in seconda liceo. Un incubo, per lui, che tutt’oggi rivive concretamente, forse per il ricordo della delusione inflitta al padre o per il senso di vergogna che questo avrebbe causato.

L’opinione di suo padre è sempre stata importante per Favino, che ricorda nitidamente la contrarietà del genitore quando gli comunicò l’intenzione di intraprendere la carriera da attore: “Per i loro figli, i genitori volevano certezze. La laurea, trent’anni fa, un lavoro te lo garantiva: magari non il lavoro dei sogni ma uno stipendio sì. Noi la preoccupazione del futuro, a quell’epoca, neanche sapevamo cosa fosse.” Il percorso nell’Accademia di recitazione di Roma non fu semplice per Favino, che non è clemente con il sé giovane allievo al primo anno: “Ero un cane come pochi attori al mondo. Porca troia se ero cane, ero un cane dannato.”

Se oggi Pierfrancesco Favino è considerato tra i più bei attori italiani, fino a 30 anni non era così: “A 33, 34 anni un uomo con la mia faccia forse diventa interessante ma a 20 no. A venti ero faccioso. E in quell’età o sei bello o sei maledetto. Avrei potuto avere le qualità del protagonista ma non ne avevo il volto.” Ecco che, quindi, prima di raggiungere il successo con L’ultimo nel 2001, Pierfrancesco Favino ha alternato il teatro a piccoli altri lavori come il cameriere, il buttafuori, il pony express o il fattorino. “La mia prima casa era un appartamento di 30 metri quadrati. A me sembrava una reggia. Ero felicissimo”, racconta l’attore, che si diede tempo massimo 35 anni per concludere qualcosa di concreto nel mondo dello spettacolo. Oggi Pierfrancesco Favino è orgoglioso, di quell’orgoglio maschio di essersi guadagnato tutto con le sue forze, senza una raccomandazione o una spinta.

“Aspiro a portare fino in fondo la libertà sul palco, a non mettere veli tra me e l’espressione”, dice Favino, che come tanti altri suoi colleghi si sente solo: “Quando hai la macchina da presa addosso sei come un essere umano lanciato nello spazio. Sei davanti a un vetro e davanti al vetro piangi, ridi e ti sveli. Poi si spengono le luci, torni in albergo e lì la compagnia evapora.”

Francesca Galici, ilgiornale.it

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