Raffaella Carrà: «Torno in tv, ma non canto né ballo: sono già troppo i reality tutti uguali»

La Raffa nazionale è la modella per il numero di Vanity Fair in edicola da mercoledì 13 febbraio, il primo del nuovo corso del direttore Simone Marchetti

«Con Pippo Baudo ne ho discusso tante volte. La mia teoria è opposta alla sua: ogni tanto, soprattutto se sei una donna, ti devi togliere dai piedi. Se sei sempre lì non ti rinnovi mai. Sempre la stessa faccia, la stessa espressione, lo stesso birignao. La tv, per farla bene, devi vederla anche da fuori. Devi capire dove vivi, chi c’è per strada, chi ha le mani sul telecomando e la sera sceglie proprio te. Se vai via per uno o due anni non succede niente. E se si scordano di te, significa che forse della tua presenza si poteva fare a meno.

(…) Dei soldi e dell’ambizione non mi è mai importato niente, ma senza coraggio la mia vita sarebbe stata triste. Se a volte ho fatto delle cazzate, le ho fatte perché le avevo scelte io. Se però una cosa non la sento, la rifiuto». Così nella storia di copertina del numero di Vanity Fair in edicola da mercoledì 13 febbraio – il primo del nuovo corso voluto dal direttore Simone Marchetti – Raffaella Carrà, fotografata da Pierpaolo Ferrari nella versione inedita di modella, racconta perché nel mondo dello spettacolo italiano si è fatta la fama di “Signora del No”. I tre no, per esempio, detti al direttore di Rai 3 Stefano Coletta («Ma che ti frega di darmi un programma ad ogni costo? Sto bene senza fare niente in tv») prima di accettare il quarto programma che gli ha proposto, una serie di interviste ai grandi personaggi del nostro tempo, in avvio il 28 marzo.

Del suo ritorno teme solo «che il pubblico dopo un’ora e mezza in cui non mi vede cantare, ballare e cazzeggiare dica “che palle”». Non dobbiamo infatti aspettarci uno show vero e proprio: «(…) Lo spettacolo saranno le parole e in questo momento di omologazione anche televisiva, di reality tutti uguali fatti di nulla, che portano in primo piano la superficialità, una trasmissione di parola, di scambio e di confessioni, mi sembra sia qualcosa di giusto».

Quasi una Rivoluzione, rivoluzione che spesso a lei viene riconosciuto di aver portato nel costume italiano. «Lo dicono adesso, ma per decenni sono stata considerata quella dell’ombelico, del tuca tuca o dei fagioli. Adesso che ho 75 anni dicono che ho fatto la rivoluzione». A proposito di ombelico: «Dov’era lo scandalo? Dove la provocazione? Era tutto pulito. (…) Oggi in tv vedo naufraghi con un filo nel sedere o con i seni rifatti da cui spunta un capezzolo. Non giudico perché non sono mai stata moralista, però che vogliano mostrare filo e capezzolo è evidente. (…) Forse anche a noi l’avrebbero fatto passare, ma il punto è che non piaceva a me. Oggi in tv c’è più libertà, ma è una libertà soprattutto di parola. Noi parolacce non le dicevamo, oggi basta mettere una qualunque trasmissione e se non dici vaffanculo ti guardano anche male».

La principale dote che si riconosce: «Ironia e autoironia. (…) Non sempre gli altri l’hanno capito. Nell’ambiente non dico mi considerino una zarina, ma sicuramente una donna a suo modo potente. Ma non è vero no. E neanche che sia stata ambiziosa. Se ho avuto il passo da carabiniere e a qualcuno sono parsa aggressiva è perché, in un mondo fondamentalmente maschile, ho dovuto difendermi e farmi valere».
Sul suo ex compagno Sergio Japino, di cui scrissero “La bella incontra la bestia”: «Furono cattivi, anzi mostruosi ed è inutile dire una balla: Sergio ne soffrì. (…) Qualcuno ha mai fatto un appunto del genere su Costanzo a Maria De Filippi? Non credo». Sul suo primo grande amore, Gianni Boncompagni: «Mi manca molto. Avrei voglia di parlargli, di andare da lui. Non si può più e allora, anche se non vado in chiesa, ci parlo lo stesso pregando. Prego tutti i giorni, non solo per lui».

Sulla rivoluzione grillina, in cui disse anni fa di credere: «Si sono resi conto anche loro che criticare è più facile che fare le cose. Ora abbiamo questa cosa gialloverde e io credo che tutti dovremmo augurarci che funzioni al meglio. Spero che abbattano la burocrazia e che si facciano sentire duramente in Europa. Non devono salire Di Maio e Salvini con i panini, ma tutto il Parlamento. E non per dire a Juncker che beve troppo, ma per far capire che di questa storia dei migranti devono occuparsene tutti. Sapere che 40 migranti stanno male, o che nessuno si mobilità per l’Africa: questo mi fa stare male».

Vanity Fair si reinventa a partire da questo numero con una nuova veste grafica curata da Massimo Pitis (direttore creativo del Wired Italia premiato a New York come “Miglior magazine del mondo”), un nuovo slogan («Quello che è non è quello che sembra»), nuovi formati e nuove firme: questa settimana, per esempio, debuttano come collaboratori l’editorialista Mattia Feltri, lo scrittore israeliano Eshkol Nevo (La simmetria dei desideri), l’artista Maurizio Cattelan, Ambra Angiolini, Roberto D’Agostino, Costantino della Gherardesca, l’enigmatica astrologa Maria Rivolta Celeste. E tanti altri ancora nei prossimi numeri.

Malcolm Pagani, Vanity Fair

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