Cristiana Capotondi: «Chiamatemi Attila»

L’infanzia turbolenta e l’adolescenza vissuta senza mai sentirsi bella, il suo mestiere, la maturità, l’amore per Andrea Pezzi e il desiderio di ieri che batte più forte di tutto il resto: «Sognavo di essere libera e indipendente, magari domani diventerò regista»

Ecco un estratto dell’intervista di copertina che Vanity Fair dedica a Cristiana Capotondi, sul numero 50 in edicola fino al 18 novembre 2018.

Affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri: «La carta da parati color avorio con i fiori che era nel salone della casa in cui ho vissuto fino all’età di due anni», «le ginocchia sbucciate, i pantaloni corti e le corse in bicicletta che facevo da bambina», «l’albergo sul mare del primo set in cui lavorai, a Camogli, per uno spot che poi non fu trasmesso.

Mi avevano pettinato come Marilyn Monroe e di notte, le onde sembravano entrare direttamente nella stanza». A 38 anni, Cristiana Capotondi ha scoperto che il caffè non le piacerà mai, ma che una sola spezia non le basta e «che il mio unico antidoto per combattere l’inquietudine è faticare. Mi sveglio caricata a pallettoni e fino a quando non sono finite le munizioni, sparo tutti i colpi a mia disposizione».

Poi come finisce?
«Sempre nello stesso modo: alla fine della giornata crollo addormentata su un divano. Non c’è un mio amico che non mi abbia visto dormire all’improvviso, anche se intorno a me si svolgeva un rave party».

Come mai quest’ansia di spendersi?
«Non saprei dirlo, però so che se mi sveglio e la casa è allagata, io sono contenta perché posso mettermi all’opera e risolvere il problema. A volte, a forza di fare cose che non mi competono, mi faccio anche male. Mi è capitato di spostare una lastra di marmo in hotel perché non ero soddisfatta dell’arredamento e di farmela cadere sul piede fratturandomelo».

L’esperienza non le ha suggerito di calmarsi?
«Ferma non riesco a stare. Altrimenti la testa inizia a muoversi, arrivano i pensieri bizzarri e in un attimo mi trovo alla deriva. Il senso pratico mi aiuta a stare in equilibrio».

Cosa significa per lei andare alla deriva?
«Qualcosa che ho provato sulla mia pelle tutte le volte in cui non mi sono sentita centrata, tutte le volte che non ho detto quello che pensavo, tutte le volte che ho avuto la netta percezione di mettere a tacere una parte di me. Quando mi è capitato, ho sentito una sensazione di vuoto, di vertigine, di spavento».

Succede perché non troviamo mai le risposte giuste al momento giusto?
«La risposta giusta esiste sempre, il problema è che a tutti noi capita di negoziare con il compromesso e mettere in un angolo le nostre opinioni per piegarci a quello che pensiamo sia corretto dire o fare. Aver paura di esprimere il tuo pensiero per essere conforme a quello dominante è un vizio che ho sempre cercato di combattere. Diventare adulta, nel percorso, mi ha aiutato».

Che bambina era?
«Mi chiamavano Attila: il flagello di dio. Ero irruenta e vivace e credo di essere stata una figlia molto faticosa, però avevo le idee abbastanza chiare su quel che volevo fare e alla fine il desiderio dei miei genitori, un padre dolce e accogliente, una madre divertente e spigolosa, l’ho esaudito. Volevano mi laureassi. Tra la fine di un film e l’inizio di un altro, ormai quasi 15 anni fa, in un caldissimo luglio del 2005, li ho accontentati».

Titolo della tesi?
«“Il cinema italiano durante il Fascismo”. Da Roma città aperta a Tutti a casa, ho visto decine di film».

E cosa ha capito?
«Che la storia vista dal basso restituisce un punto di vista prezioso sugli eventi. Sulle promesse, sulle ambizioni, sulle delusioni e sui tradimenti, degli ideali e non solo».

Che rapporto ha con il tradimento e con la delusione?
«Credo di aver ingannato qualcuno e di essermi mossa animata a volte da un sano egoismo, ma se ho mancato di rispetto e mi sono mossa maldestramente, non era per malafede. Cercavo una dimensione. Quando ti dimeni puoi essere elefantiaco e ferire, anche inconsapevolmente, ma non mi sono mai sentita innocente a prescindere. Sbaglio, cado, imparo. E la volta successiva, facendo tesoro delle esperienze precedenti, cerco di comportarmi in un altro modo».

Pensava di diventare attrice?
«Io nasco a disagio: figlia di una famiglia di origine ebraica, mi hanno chiamata Cristiana affibbiandomi per imbarazzo un nomignolo, Titta, che mi sono portata dietro per anni. Dal mio punto di vista, volevo soltanto tre cose: crescere, diventare indipendente ed essere libera. Dimostrarmi speciale, almeno con un talento».

Ci è riuscita?
«Forse, con rammarico, ho un po’ deluso quell’aspirazione e non sono stata capace di realizzare quell’idea di me stessa: libera, felice e indipendente. Quando avete celebrato il vostro Festival, Stories, mi avete chiesto di concentrarmi su una storia da raccontare. Mi sono ritrovata a casa, le ho messe in fila e mi sono detta: “Tutto qui?”, “Cosa è successo, Cristiana, in questi anni?”». (Sorride).

Cosa è successo?
«Ho imparato ad ascoltare, per esempio. Parlo molto meno di un tempo, passo intere giornate in silenzio e ogni tanto mangio ancora da sola. Io, il piatto e il libro. Ma non lo trovo affatto triste».

Malcom Pagani, Vanity Fair

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