Michele Placido: il mio Goldoni racconta la società di oggi

«Un chiacchierone maldicente, molto originale e comico, uno di quei flagelli dell’umanità che preoccupa tutti quanti». È il ritratto che Carlo Goldoni (1707 – 1793) traccia nei suoi «Mémoires» di Don Marzio, considerato il primo grande personaggio del commediografo veneziano, il «nobile napoletano» sfaccendato e misantropo, che alimenta pettegolezzi e maldicenze, attorno a cui ruota «La bottega del caffè».

Firmata da Paolo Valerio, la nuova edizione della commedia inaugurerà, da martedì 12 a domenica 17 ottobre, la stagione 2021-2022 del Teatro Rossetti di Trieste. Nei panni di Don Marzio Michele Placido. «Colpisce la modernità di questo testo di Goldoni — osserva —, che tra il 1750 e il 1751, l’anno della sua riforma teatrale, produrrà ben sedici commedie. I miei caratteri sono umani, e forse veri, scrive ancora nei “Mémoires”, ma io li traggo dalla turba universale degli uomini, e vuole il caso che in essi qualcuno si riconosce. È la vita il vero palcoscenico. Goldoni insegna l’arte dell’osservazione del quotidiano».

La vicenda si svolge in un campiello di Venezia, su cui si affacciano tre botteghe: il laboratorio del barbiere, la bisca di Pandolfo e la bottega del caffè di Ridolfo. «Monicelli, grande regista con cui ho lavorato in almeno tre occasioni — ricorda Placido —, sosteneva che, come Goldoni, anche lui voleva divertire raccontando però inquietudini e malesseri di una società. Che sono poi gli ingredienti della commedia all’italiana».

Don Marzio viene spesso rappresentato come un antieroe, in contrapposizione con Ridolfo, l’uomo saggio, equilibrato, generoso. «Don Marzio è la voce che “rivela” la verità del vivere dei caratteri della commedia. E non ce n’è uno positivo, dal biscazziere che gestisce il gioco d’azzardo con la truffa e con l’inganno e spenna Eugenio, il mercante di stoffe; alla ballerina Lisaura che sta soltanto con chi ha da spendere gli “sghei”, i soldi; ai borghesi che dovrebbero essere d’esempio per il popolo ma che del popolo sono molto più corrotti. Il campiello raccontato da Goldoni finisce così per rappresentare un “campione” di quello che è la società di oggi, non solo di ieri».

Don Marzio, riflette l’attore, «non riesce frenare la lingua, è la sua energia vitale. Non è più giovane e l’esperienza dell’età gli permette di capire e vedere sé stesso attraverso i difetti degli altri. Io mi sento un po’ così: oggi ho 75 anni, non riesco a tacere. Se sono in giro in taxi e vedo Roma sporca lo dico al tassista, in una intervista non riesco a non dire che nelle leggi sulle capienze si annidano delle contraddizioni: perché a teatro nosui mezzi sì?».

C’è poi il privilegio del confronto, ogni sera, con il pubblico: «Il teatro “scopre le carte” — afferma Placido —, certe ipocrisie del mondo di oggi qui non puoi nasconderle, le verità vengono a galla. Quando al termine della commedia Don Marzio è costretto alla solitudine perché “la mia lingua, presto o tardi, mi doveva condurre a un qualche gran precipizio”, ammette di essere caduto nel precipizio dell’infamia. Da cui il suo esilio da un Paese in cui “tutti vivono bene, tutti godono la libertà, la pace, il divertimento”. Una “democrazia” che obbliga però a essere “prudenti, cauti e onorati”, cioè a non dire quello che uno vede. Mentre il gusto per il pettegolezzo, oggi amplificato da salotti televisivi e social, mostra lo spaccato di una società senza tempo, allora come oggi più attenta all’apparire che all’essere. E non è questa di Goldoni una modernità sconcertante?».

Laura Zangarini, corriere.it

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