Tre piani: Nanni Moretti in concorso al Festival di Cannes celebra il funerale della borghesia

Vent’anni dopo la vittoria della Palma d’oro con La stanza del figlio, Nanni Moretti torna al Festival di Cannes con il suo nuovo film Tre Piani, il primo tratto da un soggetto non originale. Un film severissimo, che non concede nulla né ai personaggi né allo spettatore, e tantomeno all’ego del suo autore.

Una giovane donna incinta che esce di casa per partorire; un’auto impazzita che investe una passante e sconquassa, letteralmente, il condominio dove tutto si svolge (e una bambina osserva).
Nanni Moretti mette in chiaro fin da subito che Tre piani parla di vita e di morte. Una morte che, in un condominio che è mausoleo, limbo ultraterreno, prigione emotiva, può essere tale anche in vita.
Tre piani, un palazzo, tre storie che s’intrecciano: l’inflessibile giudice che non perdona il figlio per quell’incidente d’auto da ubriaco, e sua moglie in perenne tensione tra il marito e il ragazzo; una madre sola, tanto da essere soprannominata “la vedova” dai genitori dei compagni della figlia, tanto da finire per dubitare della sua sanità mentale; due famiglie unite da un sospetto atroce (la pedofilia) e da un rapporto sessuale non pedofilo ma comunque sbilanciato, e inopportuno.

Mai Moretti era stato così severo.
Così algido e livido, così determinato a non concedere nulla a nessuno. A sé stesso, allo spettatore – non c’è spazio nemmeno per una risata, né per una commozione che non sia sorda e dolorosa, e mai liberatoria – e ai suoi personaggi, in un film dove l’operazione di sottrazione è intensa e costante, fino al sottovuoto esistenziale: nella scrittura e nella regia. Nella recitazione.
I personaggi di Tre piani sono inerti, sono fantasmi, sono robot. Esseri umani devitalizzati (e non sempre è facile capire dove finisce l’ossessione di Moretti per questo stato indotto di devitalizzazione, e dove inizino invece i limiti di certe recitazioni).

Solo il contatto coi i figli, coi bambini così amati e toccati e stretti, sembra poter dare ai protagonisti di Tre piani l’occasionale scintilla della vita, quella vita che sfuma anno dopo anno, quinquennio dopo quinquennio, e della quale ci si accorge solo quando si lasciano le abitazioni così impeccabili e così fredde, e ci si accorge di quel che c’è fuori, per la strada, nel mondo.
Fosse pure una rivolta contro gli immigrati, una manciata di arnie in un bosco, o un corteo di ballerini di tango, come quello di un finale nel quale Moretti sembra quasi, e quasi con sottile ansia, voler riaffermare il legame con il suo cinema passato, con quella parte di sé che ha negato per tutto il film.

Da sempre caustico critico della sua generazione e della sua classe sociale, Moretti qui sembra voler additare e insieme seppellire definitivamente tanto le speranze quanto gli errori del passato.
Celebrare il funerale di una borghesia che si è chiusa nelle sue case, nel suo benessere, nella sua indifferenza, che si è aggrappata alle sue ossessioni e alle sue regole, e ha smesso di essere.
Sta ai suoi figli cercare nuove strade (“questa non è la nostra strada”, ripetono alcuni personaggi, condannando sé stessi e loro figlio), partire per nuovi orizzonti, nuove libertà, nuove vite.

Difficile dire perché Moretti si sia cimentato in un film tanto duro e spiazzante, e in una storia così angosciante, e inquietante.
Forse ci sono ragioni personali, forse storiche. Forse il Moretti “profetico” ci ha intravisti reclusi in casa per la pandemia, soli coi nostri vuoti, aiutati solo dalla vitalità dei nostri figli.
Forse aveva solo voglia di percorrere fino in fondo e alle estreme conseguenze – oltre sarebbe davvero difficile andare – un cammino iniziato con Habemus Papam e proseguito con Mia madre.
Per prepararsi a cambiare nuovamente, a rinascere a nuovo cinema, con il prossimo film.

comingsoon.it

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