The Last of Us 2, la recensione: la vendetta secondo Naughty Dog

La nostra recensione di The Last of Us 2, il nuovo attesissimo capolavoro Naughty Dog in esclusiva per PlayStation 4 che mette al centro rabbia, violenza e disperazione.

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Non nascondo che scrivere la recensione di The Last of Us 2 porti con sé un certo peso, il peso dell’eredità di uno dei titoli più celebri ed apprezzati della scorsa generazione, il peso delle aspettative immense di un altrettanto immenso pubblico di giocatori, il peso dell’analisi di quello che è senza il minimo dubbio il titolo più atteso di questo anno.

Tra tutto porta soprattutto il peso del trovarsi davanti ad un’opera immensa, tanto sfaccettata e ricca di sfumature da dover essere metabolizzata per giorni una volta completata. The Last of Us Parte II è prima di tutto un racconto complesso a trecentosessanta gradi, che rende l’interazione del giocatore perfettamente in funzione del narrato, nella progressiva repulsione della violenza su cui tanto poggiano gli strazianti eventi del gioco.

Ilcapolavoro di Naughty Dog – perché di capolavoro si parla – è una storia di lutto, trauma, rabbia, vendetta e disperazione, su quello che si è disposti a perdere nel tentativo di soffocare i propri fantasmi, sulla capacità infame del dolore di bruciare completamente l’integrità umana in un regredire al di fuori di ogni limite e confine. È una danza di sangue e come prevedibile di evidenti contrasti, tra vita e morte, tra meraviglia e atrocità e tra presente e passato, per arrivare infine anche all’interno dello stesso punto di vista attraverso cui scorrono gli eventi del gioco.

Una visione artistica chiara e lucida insomma, quella di Neil Druckmann e del team californiano, che sfonda pure all’interno di un giocato rifinito e in gran parte rinnovato rispetto al primo capitolo, regalando momenti indimenticabili, soddisfacenti fasi esplorative completamente opzionali e una maggiore libertà nello scegliere il proprio approccio all’interno dell’alternanza combattimento/stealth, complici tra le tante cose un notevole arricchimento delle possibilità di movimento e un level design ricco di alternative e piccolezze. The Last of Us Parte II eguaglia e per certi versi supera a grandi falcate il predecessore e si staglia a mani basse come uno dei migliori frutti (se non il migliore) della scuderia Sony, un semplice must buy per chiunque possegga una PlayStation 4.Vi ricordo inoltre che The Last of Us Parte II (The Last of Us 2 per semplicità da ora in poi) sarà disponibile in esclusiva su PS4 dal 19 giugno, tra una settimana.

Come già noto, The Last of Us 2 prende piede cinque anni dopo gli eventi del primo capitolo, di nuovo a Jackson, la prospera e densa oasi autosufficiente gestita come sicuramente ricordate da Tommy, il fratello di Joel, e sua moglie Maria. A seguito del clamoroso finale che ha visto Joel compiere una strage per salvare la vita di Ellie, i due sono ormai integrati in questa comunità che sembra avere ripristinato la normalità per ognuno dei suoi abitanti, tra esercizi commerciali, locali frequentati, normali abitazioni e addirittura scuole. Triangoli amorosi, gossip, gente bigotta, bambini che giocano a palla di neve e accese discussioni fuori dai negozi, tutto sembra gridare una tranquilla quotidianità e relativa spensieratezza.

Ovviamente non ci si dimentica dei pericoli dell’epidemia da cordyceps, e si mandano quindi periodicamente pattuglie armate per esplorare i dintorni, identificare possibili orde, uccidere infetti e in caso di emergenza avvertire l’insediamento. Questa pace idilliaca in un immaginario così spietato non è purtroppo destinata a durare, e proprio nel corso di una delle esplorazioni all’esterno, avviene un evento tanto atroce e drammatico da segnare definitivamente Ellie e spingerla ad avviarsi verso Seattle, esigendo vendetta e innescando un pericoloso percorso a doppio taglio che avvolge tutta l’avventura.

Glissando su qualsiasi altro riferimento specifico perché letteralmente qualsiasi altra cosa da qui è pesante spoiler, fin dalla struttura dello stupendo e geniale climax del lungo prologo del gioco, addirittura più cattivo e raffinato di quello dell’episodio precedente, si intravede quello che senza dubbio permette a The Last of Us 2 di svettare oltre la normale eccellenza, nonché di prendersi il voto che vedete in fondo al pezzo: la totale integrazione tra game design e racconto. Come accennavo nell’introduzione, il parto di Naughty Dog – in completa opposizione a quanto portato avanti in Uncharted – non crea alcuna dissonante tensione tra storia e giocato, e anzi sfrutta tutta l’immensa potenza dell’interattività (spesso altrove inesplorata) per rafforzare la dirompenza di alcuni eventi, creare empatia con determinate sorti e personaggi e in generale affidare i propri temi. La carneficina portata avanti dalla brutalità cieca di Ellie trasla dalla cruda portata ludica a quella narrativa, in una sequela progressiva di prese di coscienza che trova il suo naturale sbocco nella sorprendente seconda metà del gioco.

Non a caso la violenza del gioco è decisamente esplicita e ricca di dettagli e non a caso si cerca di umanizzare il più possibile i vari nemici dando addirittura un nome a ciascuno. The Last of Us 2 è un’esperienza che di continuo vuole mettere in dubbio la propria prospettiva, facendo leva sul feroce impatto del gameplay per indurre il giocatore stesso a rivalutare o comunque contestualizzare le azioni da lui controllate, segnando atroci punti di non ritorno. Mi viene difficile pensare, viste queste premesse, un eventuale adattamento di questo secondo capitolo al cinema o alla televisione, al contrario di quanto invece perfettamente fattibile con l’originale, come non a caso già sta facendo HBO: questo secondo capitolo è un intreccio di eventi che vive per essere videogioco, sfruttando al meglio tutte le possibilità del mezzo.

A partire comunque dalla natura del suo soggetto, parlo insomma di una narrazione orizzontale e problematica (nel senso buono del termine), che mostra ben poca pietà e lascia intravedere ben pochi raggi di speranza, stringendo nel solido cappio del dolore e del trauma una visione ciclica della vendetta desolante e asfissiante, che massacra ricordi, affetti e psiche. Nel solco del grande esempio del primo episodio, The Last of Us 2 è anche una esaltazione di contrasti netti, qui – al di fuori della direzione artistica – principalmente lasciati alla splendida alternanza tra flashback e presente, che regala tra i momenti migliori ed emotivamente potenti del gioco e completa i punti incogniti dei personaggi, tracciando con sensibilità l’ingenua e splendida innocenza degli spiragli del vecchio mondo, tra curiosità, legami e immaginazione.

Questo ovviamente prima di rompere la bolla, infrangere il sogno e ricordare bruscamente la gelida esistenza di una terribile realtà consumata, dove per ogni difficile scelta non esiste e non può esistere indulgenza. Il finale in qualche modo è poi la somma perfetta di tutto quello che il gioco sviluppa nel corso delle sue trenta ore (sì, è un titolo piacevolmente lungo, pure se con un ritmo a volte più compassato), seppure sia meno semplice e dirompente dell’epilogo cult del predecessore, ma assolutamente non per questo meno valido. Potreste impiegare un po’ di tempo a metabolizzarlo, siccome appunto è una estrema sintesi che conclude definitivamente la discussione sul trauma, che vive delle molte intuizioni brillanti del resto dell’avventura e dei suoi simboli, chiudendo alla perfezione come la prima conclusione un immaginario raccordo circolare con il prologo. Preparatevi a gettare qualche lacrima. L’unica macchia sul piano narrativo è qualche giustificazione pretestuosa e leggermente straniante per un paio di snodi della seconda metà del gioco, cosa che però non intacca minimamente l’impatto generale, al netto dello storcere un po’ il naso nel cercare il pelo nell’uovo.

Per ultimo, e dopo accantono questo discorso perché penso di aver già detto troppo, The Last of Us 2 è una produzione che oltre ad essere coraggiosa nel non preoccuparsi di risultare edulcorata (vedasi l’estrema e sensata fedeltà visiva della violenza), propone anche qualche momento senza filtri e non si tira indietro nella rappresentazione di temi di grande importanza nel dibattito contemporaneo, sebbene non lo faccia mai in maniera didascalica. E mi fermo qui perché voglio evitare spoiler anche impliciti. In ogni caso, durante questo lungo percorso attraverso Seattle vi troverete ad affrontare due fazioni, che si contendono con un odio viscerale il dominio della città. La prima che incomincerete a conoscere è quella del WLF, il Washington Liberation Front, (o lupi, da wolf) un gruppo che ha sconfitto al tempo le forze di occupazione militare della zona di quarantena e si presenta come estremamente organizzato e militarizzato. Le pattuglie del WLF sono affiancate nella maggior parte dei casi da pericolosi segugi, abbastanza abili da percepire il vostro odore e stanarvi da una perfetta posizione furtiva.

La seconda invece è quella dei Serafiti (o iene), una setta di fanatici dal culto rigido e macabro, che si struttura in modo estremamente tribale, su tradizioni e gerarchie solide. Estremamente poco rumorosi e dotati spesso di archi e armi melee, questi nemici comunicano per fischi in codice e risultano parecchio reattivi e coordinati. Non mi dimentico di certo nemmeno degli infetti, che tornano nelle stesse tipologie del primo The Last of Us (runner, clicker, bloater), con l’aggiunta del nuovissimo shambler, di un extra ripugnante, clamoroso, assurdo e memorabile che dovete scoprire da soli e di stalker completamente aggiornati, laddove nell’originale comparivano pochissimo (un paio di volte) e avevano un comportamento leggermente più intelligente rispetto ai normali runner – difficile da valutare stealth.

Al contrario, qui gli stalker a causa del loro essere silenziosi rendono inutile la modalità ascolto (il rilevamento nemici attivabile con R1) e si muovono con agilità, nascondendosi dietro ogni possibile copertura e preparandosi ad insidiosi e imprevedibili agguati se individuata la preda dalla distanza.

A differenza appunto del loro utilizzo passato, questo stato intermedio dell’infezione viene diverse volte sfruttato per costruire fasi survival horror più ricche di tensione, dove senza riferimenti bisogna essere costantemente attenti all’ambiente circostante, al perfetto sound design e alle pareti dove i maledetti crescono dormienti, per individuarli e terminarli in fretta una volta avuta l’occasione. Gli shambler sono invece infetti simili ai bloater per stazza, provvisti di pustole su gran parte del corpo che usano per diffondere delle spore acide una volta avvicinatosi ad Ellie, dopo aver caricato nella sua direzione. Non sono in realtà ingestibili di per sé, ma se combinati ad altri infetti possono causare più di qualche problema, sia perché costringono a muoversi velocemente, sia perché la fitta nube acidadelle loro spore porta inevitabilmente oltre ai danni una certa confusione a schermo.

Per affrontare in ogni caso i gruppi di avversari si ha a disposizione una maggiore libertà nel movimento che si abbina ad una maggiore interazione con l’ambiente: si può quindi ora stendersi completamente a terra e rimanere relativamente coperti (mai completamente) a seconda dell’altezza della vegetazione, ogni tipo di vetrata può essere infranta, si può saltare da una sporgenza all’altra, si può passare attraverso ogni minima fessura o nascondersi sotto basse superfici. Questo oltre alle rinnovate possibilità del crafting, che torna con un sistema praticamente identico a quello del gioco originale, con la raccolta di materiali e la creazione quasi istantanea di munizioni, esplosivi e armi dal chiaro menù accessibile con il touchpad. Ellie è in grado dunque di costruire ad esempio silenziatori come frecce e frecce esplosive, cosa che aumenta esponenzialmente le possibilità dello stealth e meno nello specifico l’arbitrio del giocatore nel come voler risolvere le situazioni.

É senza problemi contemplato comunque anche uscire allo scoperto, usando bombe fumogene/stordenti, mine, shotgun e armi artigianali per colpire velocemente, ingaggiare nei dinamici (grazie alla schivata con L1) e cruenti confronti melee, per poi infine tornare velocemente dietro una copertura o nascosti nell’erba, con la consapevolezza che la propria invisibilità non sarà garantita a media/corta distanza specie quando non distesi. In questo entra in merito anche l’intelligenza artificiale e il level design. Il secondo nelle zone pattugliate dai nemici è sviluppato molto in ampiezza e spesso in verticalità, ed è pensato ovviamente per avvalersi di tutte le nuove possibilità di interazione e movimento del personaggio, offrendo spesso un’infinita di approcci diversi e addirittura permettendo che il giocatore se abbastanza capace possa fuggire da determinate zone non uccidendo nemici o semplicemente il minimo indispensabile.

Per quanto riguarda invece l’intelligenza artificiale, appare evidente che si siano fatti grandi passi avanti. Il comportamento dei Serafiti è di sicuro il più impressionante, nel loro essere oppressivi in ricerche scrupolose e nel loro essere estremamente complessi da aggirare a fronte della continua comunicazione per fischi, mentre gli stalker sono sull’altro fronte un successo di eguale importanza. Molto come naturale dipende dal livello di difficoltà scelto, con intermedio in realtà molto accessibile e con un livello di sfida senza dubbio abbordabile, nonostante non manchi tensione e nonostante rimangano solide le varie meccaniche di gioco.

Certo, il mio consiglio è quello di giocarlo a difficile, per una maggiore attenzione e pericolosità da parte dai nemici, come per una minore disponibilità di risorse che costringe a compiere scelte, ma in realtà potete tranquillamente personalizzare uno per uno i singoli parametri (giocatore, nemici, risorse, stealth e compagni) e scegliere la combinazione che meglio si abbina al vostro gusto. E questa è solo una delle mille chicche di personalizzazione che offre il titolo Naughty Dog, arrivando ad una sfilza letteralmente allucinante di opzioni relative a controlli, HUD, sottotitoli e soprattutto accessibilità. É un lavoro mastodontico che penso sia una prima volta in queste proporzioni: The Last of Us 2 può essere giocato davvero in qualsiasi modo si voglia/possa.

Facciamo qualche esempio. Il button meshing dei quick time event può essere modificato a favore di una semplice pressione, vari input che richiedono pressione continua possono essere ritoccati per la pressione singola, la mira può essere automatica, l’HUD ingrandito e adattato per i daltonici e lo schermo zoomabile con il touchpad. Si possono saltare i puzzle ed è attivabile un indicatore di direzione come una modalità ascolto potenziata. I segnali audio, il text to speech e una serie di opzioni di accessibilità nel combattimento completano questa parentesi su questo mastodontico pacchetto, possibile da riassumere solo a televisione accesa e menu davanti. Poco da dire a riguardo, un lavoro di inclusività impressionante, magistrale ed eccellente che merita un grande plauso.

La cosa che tuttavia potreste non aspettarvi da The Last of Us 2 è il focus posto sull’esplorazione. Specie nella prima metà del gioco, e in misura sensibilmente minore nella seconda, il gioco preferisce calare di ritmo e dare la possibilità al giocatore di approfondire gli ambienti circostanti, dando spazio ad aree decisamente ampie (una in particolare si piazza come il next step del Madagascar di Uncharted 4) e puzzle ambientali in qualche caso meno scontati e interessanti. Si va quindi alla ricerca delle sempre necessarie risorse per il crafting, delle parti per migliorare le armi (molto appagante l’applicazione delle singole modifiche ai banchi da lavoro), e soprattutto di armi (spesso trovarle è opzionale), fondine e manuali di addestramento, oltre ai documenti dediti ad approfondire e contestualizzare in maniera efficace le fazioni, i sopravvissuti, il decorso dell’epidemia e la storia di Seattle.

A differenza di quanto accadeva timidamente nel primo capitolo, ora i manuali non potenziano semplicemente efficacia e durabilità di oggetti specifici, ma sbloccano addirittura interi rami dell’albero di abilità del personaggio, con i cinque perk per ramo in ogni caso da attivare attraverso la spesa di integratori, che tornano anche in questa sede.

Tecnicamente il gioco, non che ci fossero dubbi, è ovviamente inattaccabile e impressionante. Su PlayStation 4 Pro The Last of Us 2 mantiene una fluidità davvero stabile di 30 frame al secondo, con una qualità dell’immagine decisamente perfetta visto l’aliasing praticamente inesistente (come non esisteva in Uncharted 4 e The Lost Legacy). L’attenzione al dettaglio è semplicemente mostruosa, vedendo nei paesaggi invernali la neve dagli alberi cadere al nostro passaggio e le lastre di ghiaccio rompersi alla minima pressione, mentre a Seattle, protagonista di un prepotente ritorno della natura, la vegetazione reagisce in maniera coerente rispetto ad ogni nostro minimo movimento.

I dettagliati modelli dei nemici – come possibile appurare nelle uccisioni furtive – rispondono con un senso a colpi d’arma da fuoco, esecuzioni ed esplosioni, distruggendosi, smembrandosi o semplicemente animandosi in funzione della posizione del danno (si possono buttare a terra sparando alle gambe, ad esempio). La decisa copiosità del sangue e le animazioni facciali di un Ellie feroce e degli NPC che guardano in faccia disperati la propria morte chiudono il cerchio di una rappresentazione della violenza senza filtri, assolutamente necessaria per le finalità narrative.

Pure volendo sorvolare sulla qualità clamorosa e a tratti indistinguibile dal reale delle animazioni facciali durante le scene di intermezzo, le animazioni in generale godono di una fluidità evidente anche ad un cieco, specie in quei combattimenti melee che tanto sfruttano i risultati raggiunti a riguardo. Merito probabilmente soprattutto della tecnologia di motion matching, ma il risultato finale eccetto qualche minima sbavatura/errore può fare tranquillante smascellare. L’illuminazione, non semplice da portare avanti per l’onnipresenza di luce indiretta in un immaginario post apocalittico, risulta sempre credibile ed è notevole la resa di alcuni materiali specie in combo con il bagnato, il lavoro certosino sulle ombre (sebbene a volte la qualità cambi troppo bruscamente) e la generale abbondanza di riflessioni. Ogni pozzanghera e onnipresente superficie riflettente infatti specchia l’ambiente circostante, restituendo un grande impatto in tandem con il resto del comparto grafico.

La direzione artistica completa il quadro di un così meraviglioso risultato finale, dove madre natura riprende il posto di quello che un tempo era l’urbano e i nidi di infetti prendono possesso di interni iper caratterizzati e dunque molto differenziati l’uno dall’altro. Un’ultima rassicurazione riguarda il doppiaggio, con un italiano solido che addirittura regge il confronto con le voci originali (ho giocato metà del gioco una seconda volta), confermando la bontà delle localizzazioni dei titoli Sony.


Leganerd.com

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