Addio a Luigi Maria Burruano, il cattivo della fiction

Il popolare attore teatrale e cinematografico aveva 69 anni. Ha lavorato con Salvatores, Marco Tullio Giordana e Tornatore. Orlando: “Addio a una indimenticabile maschera del teatro italiano”

E’ morto nella sua casa di Palermo, all’Uditore, l’attore Gigi Burruano. 69 anni, Burruano è stato uno degli attori teatrali e cinematografici più popolari a Palermo e non solo. Ha cominciato a recitare negli anni Settanta, dedicandosi al cabaret e al teatro dialettale. Come attore di teatro ha calcato i principali palcoscenici d’Italia, ma la sua carriera è stata anche cinematografica: dal film i Cento Passi girato insieme al nipote Luigi Lo Cascio, all’Uomo delle Stelle di Giuseppe Tornatore a Quo Vadis Baby? di Grabriele Salvatores. E, ancora, il suo ruolo ne La Piovra e nei film Mary per sempre e in Ragazzi fuori. Il sindaco Leoluca Orlando: “Scompare uno straordinario attore palermitano, una maschera indimenticabile del teatro italiano”.

L’attore è morto nel sonno. A vegliarlo nella sua casa dell’Uditore il nipote Martino Lo Cascio, fratello dell’attore Luigi. Amici e colleghi stanno raggiungendo l’abitazione per l’ultimo saluto. La camera ardente sarà allestita in tarda mattinata al Teatro Biondo. “Sto andando ad onorarlo a casa sua “, dice Lollo Franco. “Palermo saluta un pezzo di grande storia”, scrive Paride Benassai.

Una lunga processione di amici, colleghi e anche ammiratori, in queste ore si sta creando davanti alla sua abitazione nel popolare quartiere di Uditore.

Antonio Fraschilla e Sara Scarafia, Repubblica.it

 

È l’ultima intervista a Luigi Maria Burruano e risale alla fine di novembre del 2016. Pubblicata da Repubblica per il ciclo delle interviste domenicali. La riproponiamo integralmente.

Il Rancu Tanu è ammaccato dal tempo ma conserva la grinta di sempre. La voce è un po’ arrochita ma la lingua resta tagliente, di quelle che non la mandano a dire, né a politici né a colleghi. Luigi Maria Burruano, l’attore palermitano più popolare, icona di casa nostra di talento e sregolatezza, siede nel divano del suo appartamento di piazza Uditore, e, con la consapevolezza di chi si è tolto tante soddisfazioni, dal record di repliche di”Palermo oh cara” alle esperienze con Gabriele Salvatores e Marco Tullio Giordana, parla della sua storia d’amore finita col teatro: «È finita la voglia ma non l’amore. La voglia finisce quando ti accorgi che lavorare ti viene pesante. Non ho nessun rimpianto, le cose che ho fatto spero di averle fatte bene, e poi c’è una certa stanchezza sia fisica che mentale: ho avuto dei momenti di grande depressione che per fortuna ho superato. Diciamo che il lavoro non lo cerco più: prima se il mio agente non mi chiamava per una settimana gli mordevo il collo. Se capita, come capiterà con Beppe Cino per un film, ben venga ma non inseguo nessuno. Detto questo mi chiedo come mai il Teatro Biondo, che sta rimettendo in scena Scaldati, non pensi anche a Burruano e a “Palermo oh cara”».

Vuol dire che sarebbe disposto a tornare in scena per un’ennesima versione di “Palermo oh cara?”
«”Palermo oh cara“ al Biondo la farei volentieri».

Ma perché il figlio di un dentista decide di fare l’attore e di sposare la città delle borgate e delle taverne?
«Ho avuto una famiglia che non ha mai intralciato la mia volontà. Il mio sogno era diventare pianista, lo suonava mia sorella, la ascoltavo quando veniva il maestro a casa e mi mangiavo il cuore. Io stavo alla Zisa, nella zona tra corso Olivuzza e via Dante, un amico del rione mi disse che c’era una persona che stava mettendo assieme una compagnia di teatro amatoriale. La persona era Nino Drago e gli dissi subito sì. C’era uno scantinato in via Scarlatti, si provava “L’aria del continente” e mi presero. Io da allora non frequentai più il mio rione, che per me era tutto, e andavo a provare tutti i pomeriggi. Mio padre era contentissimo, l’importante era che prendessi la licenza liceale».

Poi vennero i Travaglini…
«Ero amico di Salvo Licata, avevo un brano di cabaret che avevo scritto, “La partita”, glielo feci leggere, gli piacque molto ma non mi fece andare in scena: allora I Travaglini erano la punta massima del teatro borghese in città. Finalmente una sera Salvo mi disse: “Figghiozzu, entra in scena e fai “La partita”. Ebbe un successo enorme, io facevo tutte le voci, il pubblico, i giocatori, l’arbitro. Da allora cominciai a interessarmi al teatro popolare che veniva da Napoli, me ne innamorai e pensai a un teatro popolare palermitano che andasse oltre il cabaret. Nacque così “Sangue e latte” al teatro Dante, ispirato al libretto di “Cavalleria rusticana”, fatto con i ragazzi della Vucciria che interpretavano Alfio e Turiddu con i coltelli veri. Scelsi ragazzi della Vucciria anche per “La coltellata”: li andavo a prendere con l’autobus, li portavo al Piccolo e prima di farli entrare li dovevo perquisire…Anselmo Calaciura ne scrisse in prima pagina».

Sta rievocando l’epoca degli scantinati e dei teatrini, magari fuorilegge ma attivi, nei quali si sono forgiati tanti artigiani del teatro popolare: allora era più facile per un giovane fare teatro rispetto alla realtà di oggi senza spazi?
«C’era più fermento sicuramente, si viveva una stagione di primavera dove ognuno portava le sue idee, c’era un’unione di intenti che era quella di fare teatro. Allora in Sicilia esisteva solo il Teatro Stabile di Catania, il Biondo non produceva e quindi il teatro a Palermo l’abbiamo fatto noi. Ho incontrato una persona che mi ha recitato tutta “Palermo oh cara” senza sbagliare una battuta. Oggi oltre il Biondo non c’è più niente, noi sfondavamo i muri, pagavamo la multa e ci mettevamo a lavorare. Oggi gli attori vogliono fare “Colorado”, “Zelig”, se non fai queste cose non hai visibilità. Sì, è diventato più difficile fare teatro ma uno si deve muovere. Io prendevo il pullman per Catania e andavo a sentire le lezioni di Turi Ferro».

Ma com’è cambiata Palermo?
«La città è cambiata molto, ci sono altri gusti, altri interessi. Chi ha il dovere di lanciare Palermo sul piano teatrale non lo fa».

E le borgate che ha amato? Hanno perso l’identità, l’odore di una volta?
«A Mondello l’odore del mare, delle alghe io lo sento ancora, soprattutto nei pescatori. Tutto è diverso, ormai, ma posso dire che all’Uditore mi hanno accolto bene e ho trovato l’anima del quartiere dove la gente che si incontra per strada si ferma a parlare, e il bar è un punto di riferimento. L’unico problema è qui non ci sono molti tifosi del Palermo».

Com’è nato il Rancu Tanu del suo spettacolo-cult, “Palermo oh cara”, il personaggio simbolo del suo teatro?
«Io mi portavo dietro, sin da piccolo, la figura di uno zoppo che faceva il gioco “U sutta 90”: se con i tre numeri estratti si totalizzava meno di 90 si vincevano le caramelle. Era una persona di una cattiveria da fare paura, noi ragazzini ci speventavamo, ma aveva un modo di raccontare storie inventate da lui che ci affascinava. La sua carta d’identità era il fiasco di vino che aveva sempre con sè».

Oggi che margini ci sono per il teatro popolare palermitano?
«Il teatro popolare soffre la mancanza di autori che ne erano gli artefici. Oggi è ai confini col cabaret, ha assunto un’altra forma».

Burruano, lei ha amato la vita con tutti i suoi piaceri e vizi, Bacco, Tabacco e Venere. In qualche modo questo ha ostacolato la sua carriera?
«Tutto sommato non molto. Io tra i 20 e i 50 anni la vita me lo sono mangiata a morsi grazie al mio lavoro. Lavoravo per godermi la vita e l’ho vissuta fino in fondo. Ho avuto qualche problema che bene o male ho superato, ho un equilibrio mentale e fisico fortissimo».

L’esperienza del carcere come l’ha segnata?
«Nel momento in cui ti mettono le manette la tua vita è sminuita. Dietro le sbarre sei un carcerato, e un carcerato, a meno che non abbia compiuto delitti atroci, è una persona che deve superare lo sconforto. Io in carcere ho trovato l’umanità nei miei compagni di cella, ho trovato la comprensione, ho trovato tutto».

Le faccio alcuni nomi con cui ha collaborato, mi dica cosa le viene in mente: Garinei.
«Grande regista, meticoloso da morire: se sbagliavo una battura erano cazzi».

Harvey Keitel. «Un amico. Abbiamo girato “Nowhere” in Argentina».

Damiano Damiani. «Mi ha insegnato il cinema con un rimprovero sul set di “Pizza connection”. Giravamo al Capo dove io ero un idolo, mi fece un cazziatone terrificante. Sulle prime pensai di rispondergli e abbandonare il set. Per fortuna non lo feci, chiesi di rifare la scena e imparai».

Mario Di Caro, Repubblica.it

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