Fabio Testi ferito dalle bugie su Fenech

Intervista all’attore 81enne Fabio Testi

Fabio, quanti amori ha avuto?
«E chi li ha mai contati?»

Allora quante lettere d’amore ha ricevuto nella sua vita?
«Quelle si contano: in cantina ci sono cinque scatoloni pieni».

E le conserva ancora, a 81 anni?
«Certo, sono parte della mia storia. E oggi che vivo da solo, nella mia tenuta di Affi (provincia di Verona, ndr), con una singola camera da letto, ogni tanto mi ricordo dei miei amori, ma anche delle mie amicizie».

Be’, la bellezza può essere un problema.
«Avevo un trucco: mi ero inventato una fidanzata fantasma che poteva arrivare da un momento all’altro e la tiravo fuori ogni volta che non volevo essere assediato».

Dopo una vita tra Roma e i vari set in giro per il mondo, è tornato nel suo Veneto?
«E meno male, perché la natura veneta, dai solidi principi morali, ha fatto sì che la mia vita non deragliasse, con tutti gli stravizi che ho visto nel mondo del cinema e della televisione. Ma lo sa che il povero Helmut Berger veniva a piangere sulla mia spalla, dicendo che invidiava la mia educazione tradizionale?».

Che cosa facevano i suoi genitori?
«Mamma ha allevato me e mia sorella lavorando in casa. Papà si procurava carichi di munizioni che venivano raccolte dopo la guerra, per poi smontarle pazientemente e disinnescarle. Un lavoro pericolosissimo, del quale io e mia sorella Licia all’epoca ignoravamo i reali rischi. Ma papà si guardò bene dal rivelarceli, in casa si cercava tranquillità, solidità».

Che cosa faceva negli anni Cinquanta un adolescente di Peschiera del Garda?
«Correva dietro alle svedesi e alle tedesche che arrivavano per la villeggiatura».

Un classico.
«La mia prima volta fu a sedici anni, con una bellissima svedese, alla quale portai in dono una rosa del mio giardino».

«Non vado a un appuntamento senza un fiore», cantava Julio Iglesias.
«Peccato che all’epoca il Garda non fosse il lago cool che è oggi. In tanti punti assomigliava a un acquitrino. Dunque, la mia prima volta fu in una specie di palude, con le zanzare».

E già allora voleva fare l’attore?
«No, volevo fare il geometra, cosa per cui avevo studiato. Ma il Garda al tempo diventava spesso un set per i film di ambientazione esotica, tipo Mar dei Caraibi. E io cominciai lì a fare l’acrobata e la controfigura. Una volta mi fecero lavorare con Johnny Dorelli, che faceva lo spot Carosello per una famosa bibita».

Già, perché lei ha fatto per anni la controfigura al cinema, vero?
«Per anni sono caduto. Dalle scale, dalle finestre, da cavallo, dalle auto. Mi sarò ammazzato centinaia di volte, ma ero di gomma e soprattutto ero sano, allegro, sorridente. Lo sono anche oggi, nonostante tante vicissitudini».

Le manca un po’ di malinconia, sennò sarebbe un personaggio di Paolo Conte.
«La verità è che non volevo fare cinema. Non mi ritenevo all’altezza, nonostante registi e produttori mi contattassero, all’inizio per gli spot, poi per particine secondarie. Cominciai però a guadagnare e allora fu papà che, saggio, mi convinse a non partire per l’Africa, dove avrei dovuto tracciare un oleodotto, e a fare l’attore».

Studiando?
«Certo, all’Accademia di Arte Drammatica Salvatore Solida e a Cambridge per imparare l’inglese. Ho anche preso il brevetto di volo».

Qualche piccola parte e poi Vittorio De Sica la sceglie per il ruolo di Malnate ne «Il giardino dei Finzi Contini». Siamo nel 1970.
«Un uomo gigantesco, Vittorio. Intanto, a differenza di molti registi, non odiava gli attori. Lui si metteva davanti alla macchina da presa, ti faceva sedere al suo posto e poi provava tutti i ruoli, dal lattante alla vedova al generale. All’attore non restava che imitarlo bene».

L’anno dopo ecco Peppino Patroni Griffi che la vuole in «Addio fratello crudele». E qui lei incontra Charlotte Rampling.
«Un amore bello, pulito, per certi versi quasi un’amicizia amorosa. Eravamo così persi l’uno dell’altra che una volta eravamo in aeroporto, ci siamo addormentati stretti stretti e abbiamo perso il volo».

E con Ursula Andress come andò?
«Stavamo assieme da un po’, lei era nella sua villa di Ibiza. Io dovevo raggiungerla ma persi l’aereo».

Ancora?
«Il giorno dopo tornai in aeroporto, ma era scattata l’ora legale, avevo fatto confusione con gli orari e persi ancora il volo. Allora mi feci prestare un aereo privato da un amico e la raggiunsi in Spagna. Ma litigammo subito e il giorno dopo me ne tornai in Italia».

Intanto lei continuava a girare film. Com’è lavorare con Claude Chabrol? «Una fatica immane. Lui voleva fare un’infinità di piani-sequenza e questo voleva dire girare tutta la mattina per fare un solo ciak nel pomeriggio. Però che gran personaggio».

Lei ha conquistato anche Anita Ekberg, uno dei più vividi simboli erotici mai apparsi in Italia.
«Guardi, ci siamo trovati sul set in un film in cui cominciavamo a fare l’amore sotto la doccia per poi continuare a letto. Il tutto con prove e riprove. Insomma, alla sera, ci siamo guardati e ci siamo detti: “Dove andiamo a cena?”. Anita aveva una bellezza maestosa e un cuore di bambina. Delicata, raffinata, buona. I paparazzi si appostavano per fotografarci ma li seminavo, perché io le donne le rispetto, ci tengo a dirlo».

Sì ma il programma Rai «Parliamone… sabato» nel 2017 chiuse anche per un aneddoto, da lei raccontato, sulle donne dell’Est Europa, che sarebbero più «libere» in amore.
«Guardi, una cosa assurda. Innanzitutto, gli autori sapevano bene che io avrei raccontato quell’aneddoto, peraltro che non riguardava me ma un amico, il quale aveva ricevuto dalla sua donna, come regalo, un ménage à trois. Mi hanno trattato come se avessi insultato le donne, cosa assurda. E da allora non sono mai più stato chiamato in televisione. Bella roba».

Perché le «ospitate» servono?
«Be’, io vivo della mia pensione: 1.100 euro al mese».

È per questo che ha accettato di partecipare al «Grande Fratello Vip»?
«Ma certo, per soldi. Io sono un tipo franco e diretto: ci ho messo mezzo secolo a farmi un nome e oggi questo nome si paga. La produzione del Grande Fratello mi ha pagato bene e l’ho fatto. Oggi solo un bel film lo farei gratis».

Eppure gli attori della sua generazione non sono passati facilmente alla tv.
«È vero, la snobbavamo. Mi offrirono la conduzione di “Domenica In” ma rifiutai: io chiedevo solo un copione e una sceneggiatura. Fu un errore, perché guardi oggi Mara Venier: è diventata una grande donna televisiva pur provenendo dal cinema. Poi c’erano quelle come la mia amica Mariangela Melato che erano capaci di fare qualunque cosa, tanto erano versatili».

Torniamo al cinema. È il 1985 e Dino Risi la chiama sul set di «Scemo di guerra», con un giovane Beppe Grillo. Si capiva già allora che quest’ultimo sarebbe diventato un politico?
«Eccome. Innanzitutto per l’ambizione smisurata: Beppe è uno che per una battuta farebbe di tutto. Poi per i contatti che coltivava già allora: filosofi, informatici, ingegneri, sociologi. Lui è intelligente soprattutto perché sa fare le domande giuste, le ha sempre fatte. Chiede, si informa, vuole sapere. Ricordo una cosa: stavamo girando nel deserto nordafricano, quando da lontano vediamo arrivare una macchina nascosta in una nuvola di fumo. L’auto accosta, scende il collaboratore di Beppe. In mano ha una valigia: la apre e dentro vediamo due grandi giare piene di pesto genovese. Ci siamo fatti uno spaghetto straordinario nel deserto grazie a Beppe. Secondo lei non si vedeva già allora che uno così avrebbe fatto strada?».

Lei ha tre figli. Che padre è?
«Fabio, Thomas e Trini. Vivono lontani, ma ci sentiamo spesso e appena possibile ci vediamo. Mi hanno attribuito anche altri figli, ma sono balle. Mi ferì molto quando associarono a me una maternità di Edwige Fenech, sia perché lei mi era molto cara e io le ero stato vicino in un momento difficile, sia perché mi vedono sempre come un uomo bello che pensa solo a fare l’amore. Io parlo e recito in inglese, francese e spagnolo, ho lavorato con alcuni dei più grandi registi, so guidare un aereo e amo la poesia. Qualche volta anche noi uomini siamo bersaglio di sessismi, ma nessuno lo dice mai».

E negli ultimi anni ha sistemato anche questa proprietà di famiglia nella campagna veneta: una tenuta di 35 ettari, una dimora di 200 metri quadrati con palestra e tutto. Ma soprattutto un’azienda agricola. Come mai?
«Fu Jean Gabin a suggerirmi questo finale di carriera. Non tutti lo sanno, ma lui, in Bretagna, aveva una tenuta con tanti animali, tra cui le mucche, che monitorava quotidianamente e che curava personalmente. Mi disse: “La terra non ti tradisce mai” e aveva ragione».

Gli amori, invece…
«Ma io non sono mai stato geloso, piuttosto ho avuto compagne gelose. Non ho mai nascosto la verità, ho sempre preferito una bella verità a una bugia noiosa».

Due matrimoni alle spalle. Lo rifarebbe?
«Anche questa è una domanda oziosa. Per ora dico che c’è una donna con cui mi vedo, una specie di amicizia affettuosa che va avanti da un po’. Ho avuto di recente una fidanzata giovanissima che, però, dopo un po’ ha fatto pace con il moroso coetaneo e se n’è andata. Pazienza. Io qui ho i miei cani, le mie piante da frutto, gli animali. Giro le città con letture di poesia e mi tengo in forma. Dopotutto, questo prendere la vita per quello che ci dà ogni giorno è parte della mia educazione veneta. Che sia benedetta».

Corriere della Sera

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