TORNA “UMBRIA JAZZ”, DIECI GIORNI DI NOTE CON STELLE CLASSICHE E NUOVISSIME

Da Corea, Metheny, Scofield e Ron Carter al giovane, formidabile talento di Kamasi Washington. E i figliocci di Quincy Jones Jacob Collier e Jacob Kauflin. Col ritorno in Italia di un gigante funky come George Clinton e la promessa Ola Onabulé il festival insiste sulla grande black music. Notte blues col mito Buddy Guy. Alla scoperta del pop cabaret di Melody Gardot. E fra gli italiani occhio ai tromboni: quello di Petrella coi “Cosmic Renaissance” di Petrella mentre Ottolini rende omaggio a Buster Keaton

umbria-jazz-1E con questa fanno quarantatré. Un’età ormai più che adulta, che Umbria Jazz 2016 raggiunge in buona salute, attraverso circa 240 eventi dall’8 al 17 luglio in almeno sette luoghi (Santa Giuliana, i teatri Morlacchi e Pavone, la Galleria nazionale dell’Umbria, la basilica di San Pietro, e, per i live gratuiti, piazza Garibaldi e la Bottega del vino) su strade ormai note. Ovvero senza grandi sorprese in luoghi e contenuti. Ambito il secondo, nel quale d’altronde UJ ha da anni abituato il proprio pubblico a sconfinamenti rispetto al termine jazz – peraltro sempre più difficile da usare con pertinenza – da farne ormai una caratteristica essenziale. Al punto che non sorprende più di tanto che l’apertura dell’8 luglio all’Arena Santa Giuliana, sia stata affidata a Massimo Ranieri. Fuor da ogni dubbio artista grandissimo, attore di cinema, teatro e tv, cantante, regista, persino ballerino, del quale però non si conoscevano speciali propensioni jazzistiche. Note invece, eccome, quelle di Enrico Rava, Rita Marcotulli, Stefano Di Battista, Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli accanto a lui sul palco per Malìa-Napoli 1950-1960, dopo esserlo stati in studio per il disco omonimo. Ovvero un florilegio di canzoni partenopee del dopo guerra, vestite di swing a stelle e strisce; influenza dettata dalla storia che, come si sa, ha avuto in Renato Carosone il suo massimo pioniere e cantore.
Arena Santa Giuliana, il palco delle stelle. C’è da svariati anni un florido “fil noir” che percorre il festival con vecchi e nuovi eroi della miglior black music, dal mai abbastanza compianto Prince alla Daptone Revue, da Julius & The Heliocentrics ai Roots. E che pure nel 2016 aggiunge altre perle nere a quella seducente collana. La prima in arrivo del 2016 è l’anglo-nigeriano Ola Onabulé, la cui voce densa, carnale, carica di pathos, ricca di colore, del falsetto d’ordinanza come d’un drammatico vibrato – qualcosa che sta dalle parti di Michael McDonald – l’ha avuta vinta sugli iniziali studi di legge avviati in Gran Bretagna dal cantante, autore e produttore che il 9 è a Perugia col suo quartetto. Svezzatosi prima con un’elettissima schiera – i colossali conterranei Fela Kuti e King Sunny Ade, Marvin Gaye, forse il più amato, James Brown, Miles – e una sacrosanta gavetta nei locali londinesi, dopo il debutto su disco nel 1995, Onabulé ha colto i primi grandi successi in Germania, per poi conquistare anche i pubblici nordeuropei e scandinavi; terre in cui soul e jazz vanno storicamente forte. Nel 2009 è sui main stage di Montreux e Vancouver. Ma il suo sicuro talento di autore e interprete d’un soul classico, seducente, continua a restare sotto le legittime aspettative.
Onabulé non molla, e fa bene. Anche perché per lavorare lavora. Finché la diva Diana Krall, evidentemente più che convinta della di lui classe, lo invita, 1 ottobre 2015, ad aprirle la scena sull’assito della leggendaria Royal Albert Hall. Allo stesso modo il 9 a Perugia, dopo Onabulé sarà la voce di velluto della canadese, che arriva al seguito del recente, apprezzato Wallflower, vetrina di successi pop & rock del bel tempo che fu, da Dylan e Randy Newman a McCartney, i Mamas and Papas, Neil Finn, passando per Neil Young, Joni Mitchell, Jim Croce e addirittura il ginnasiale, dimenticatissimo Gilbert O’ Sullivan. Autore e voce di rara autenticità e bel garbo, Mika ha avuto, il 10, l’Arena tutta per sé. Mentre l’11 la notte è tutta blues: prima con la titolata chitarrista e cantante texana Ruthie Foster, poi con la leggenda Buddy Guy. Venerato da Hendrix, Steve Ray Vaughan, Clapton e Jimmy Page, 6 Grammy e 34 Blues Music Award (il massimo premio del genere, mai nessuno ne ha vinti altrettanti), alla soglia degli 80, che compirà il 30 luglio, s’è appena portato a casa l’ultimo, alla carriera. Riverito apostolo di quello elettrico di Chicago, al quale ha consacrato la vita, a UJ Guy – giustamente preoccupato che il mondo si scordi di Muddy Waters, Howlin’ Wolf e la musica del diavolo tutta quanta – si è portato dietro, come fa da quando l’ha scoperto, un promettente, quindicenne novizio di nome Quinn Sullivan. E se lo manda Guy, davvero non resta che ascoltarlo… Si vola invece nell’alto del jazz il 12: prima col fanta-trio John Scofield, Brad Mehldau – al cui lancio vent’anni fa il festival contribuì non poco – e Mark Guiliana, seguiti da un talento ormai più che emerso.
Santa Giuliana, capitolo secondo. Quello di Kamasi Washington, trentacinquenne sax tenore di naturale filiazione coltraniana, compositore memore della rivolta radicale dei Settanta come di soul e gospel d’antan, quanto in complessa sintonia con la più avanzata ricerca e l’Occidente colto. Solista di impressionanti capacità, partner di Hancock e Shorter, di giganti del free (Kenny Burrell e Billy Higgins), al tempo stesso perfettamente a suo agio con artisti di svariate aree black (Lauryn Hill, Chaka Khan, Snoop Dogg, la sfavillante soul orchestra panafricana di Rafael Saadiq), Washington si annuncia senza ombra di dubbio fra i più promettenti ed attesi protagonisti del festival. Maestri di un’altra generazione il 13, con la chitarra senza fine di Pat Metheny e il contrabbasso eterno di Ron Carter, cui darà il cambio l’effervescente New Quartet del “vecchio vampiro” Enrico Rava insieme ai suoi ragazzi d’oro: Francesco Diodati, Gabriele Evangelista, Enrico Morello. Stessa linea il 14, quando al quintetto codiretto da due trentennali prim’attori, i molti sax di Brandford Marsalis e la voce di Kurt Elling, seguirà una stella fresca di conio. Si chiama Melody Gardot, professione singer-songwriter: una di quelle, come Norah Jones, cui è bastato apparire per vincere. Se poi si pensa alla qualità serica e sensuale della voce, alla penna sapida, misurata quanto cangiante o alla conoscenza della pop song novecentesca, alla limpida capacità di bandleader, arrangiatrice e direttrice, non resta altro da fare che bagnarsi ad occhi chiusi nella placenta della sua musica. Affettuosa, preziosissima e dolceamara. E i circa cinque milioni di copie venduti dei suoi otto dischi, l’ultimo alfiere di una eccitante svolta black, fanno sperare che il matrimonio qualità-quantità non sia per forza destinato al divorzio.
Profondo nero il 15, quando, dopo la promessa della tradizione gospel e rythm & blues Cory Henry, oggi solista dopo la militanza coi pirotecnici Snarky Puppies, all’arena con gli Apostoles, tocca a sua maestà George Clinton, che il programma presenta con Parliament Funkadelic, fusione dei suoi due gruppi che han fondato e scritto la storia del funk. Da autore della scuderia Motown nei Sessanta – come tanti bei nomi del soul, ad esempio Isaac Hayes, che prima dei trionfi planetari con Shaft s’era imposto da songwriter conto terzi al soldo della mitica Stax – Clinton, sul finir del cruciale decennio, mutò pelle fino a farsi una specie di scanzonato Sun Ra della black. Laicissimo vescovo-taumaturgo di un teatro musicale folle e sincretico, fatto in egual misura di provocazioni, arcaiche memorie africane, voodoo, la psichedelia allora dominante. Condito con costumi e una quantità d’oggetti di scena in technicolor, rutilanti, scioccanti e a dir poco eccentrici, quel magma pare ancora oggi forgiato nel torrido forno d’un Cagliostro più nero – non solo nella pelle – di quello che nel Settecento la chiesa condannò all’ergastolo per eresia. Contemporaneo degli altri rivoluzionari eretici del soul – Sly Stone, Curtis Mayfield, Marvin Gaye, James Brown – Clinton fa dei suoi live memorabili sabba ad altissima temperatura. Una vera enciclopedia ambulante di ogni black music, fortemente speziata di rock e psichedelia.
A tutta fusion il programma del 16, con la reunion degli Steps Ahead che, guidati dal fondatore Mike Mainieri allinea la sua formazione originale; mentre il poliedrico Marcus Miller, già factotum alla corte del Divino Miles, che sbarca a Perugia in sella al suo ultimo lavoro, Afrodeezia, nel quale il polistrumentista, ma soprattutto virtuoso estremo del basso, compositore, arrangiatore e produttore, ripercorre la tragedia della diaspora dei neri africani attraverso le loro musiche originarie. Il gran finale del 17 è nelle mani di due pianisti che hanno scritto pagine importanti della storia di UJ: Stefano Bollani, in arrivo col suo fresco omaggio alla canzone napoletana, assieme al travolgente, irriverente Daniele Sepe, il clarinetto fatato di Nico Gori e la batteria, brillantissima, di Jim Black, da vent’anni e più fra i migliori. Compleanno sul palco, infine, per il grandissimoChick Corea: sono ben 75 ma il pianista pare non sentirli. Al suo fianco griffe di prima grandezza: Christian McBride contrabbasso, Kenny Garrett sax, Wallace Rooney tromba, Marcus Gilmore batteria.
Basilica di San Pietro. Recuperata al festival dopo anni, la bellissima basilica benedettina accoglie due concerti di raccolto, cameristico appeal. L’8, per la sezione “Round Midnight”, ecco la tromba di Paolo Fresu e le ugole preziose del coro A Filetta, strepitoso sestetto polifonico della tradizione corsa, in Danse, memoire, danse. Una produzione nata per caso in concerto ad Ajaccio anni fa, poi divenuta disco ECM, che rivisita con l’inedito organico tromba-coro più il bandoneon di Daniele Di Bonaventura, un repertorio sacro e profano, dettato dalle comuni radici di “vicini di casa” mediterranei dei cantanti corsi e dei musici sardi. Il tutto nello spazio incantato – e acusticamente eccezionale – che è la benedettina basilica. Dove (il 14, ore 18) va in scena un altro progetto di Fresu che ha liberamente arrangiato, insieme a Di Bonaventura (con loro suonano Michele Rabbia, Marco Bardoscia e l’Orchestra da camera di Perugia), il duecentesco Laudario di Cortona, fulgido figlio della spiritualità umbra e primo manoscritto conosciuto di volgare e musica dedicato al canto della religiosità popolare.
A teatro, a teatro! Due quelli impegnati per UJ 2016. I tradizionali Morlacchi e Pavone. Undici i concerti nei due salotti buoni del festival. A partire dal New Quartet dell’ottimo Roberto Gatto (10, Pavone, “Round Midnight”) anche lui, come Rava, in compagnia del “sangue nuovo” di giovani talenti: Alessandro Lanzoni, Matteo Bortone, Alessandro Presti. Nell’impossibilità di segnalarli, come sarebbe giusto, tutti, ecco una scelta. La serata (11, Pavone “Round Midnight”) in ricordo di Marco Tamburini, trombettista strepitoso, compositore e docente, scomparso il 29 maggio del 2015, con una all star del jazz italiano, nella quale figura anche Fabrizio Bosso, titolare dell’omaggio per big band a Duke. Accanto (11, Pavone, ore 17) Tre pianoforti per l’Aquila, ossia quelli di tre dei più acclamati under 30 italiani e non solo: Claudio Filippini, Giovanni Guidi, Mirko Signorile, che tornano a ricordare l’impegno del jazz per la città distrutta dal sisma e, ancor peggio, dall’indifferenza dei governanti per quella tragedia.
Due le belle novità legate dallo strumento dei leader: il trombone. Il progettoBuster Kluster (12, Pavone, “Round Midnight”) di Mauro Ottolini, trombonista a 24 carati, innamorato pazzo di jazz arcaico, cinema, giochi di parole e d’una esilarante teatralità, che coi suoi folli Sousaphonix reinventa – e non è certo un caso – la colonna sonora del capolavoro Seven Chances di Buster Keaton; il disco, appena sfornato, è la migliore delle presentazioni. Il 15 tocca invece al collega Gianluca Petrella, giovane maestro che il mondo c’invidia, che al Pavone (15, “Round Midnight”) ci darà notizie sugli ultimi sviluppi della sua ormai navigata passione per l’elettronica con un gruppo ad hoc, Cosmic Renaissance, nome anche dell’ep appena uscito, nel quale brilla una nidiata di talenti ancor giovanissimi: Mirco Rubegni, Francesco Ponticelli, Federico Scettri, Simone Padovani. C’è un link, grande e grosso come Quincy Jones, anche per le ultime due segnalazioni. Perché è quel colosso della storia del jazz e della musica in generale che li ha stanati, lanciati e li offre a Perugia. Tocca per primo al faccino delicato del piccolo genio inglese Jacob Collier (13, Pavone, “Round Midnight”), prodigio a cavallo di un soul pop di inarrivabile pregio melodico e armonico: neanche vent’anni, canta come un angelo e suona, come il suo idolo Stevie Wonder, tutto ma proprio tutto. Al punto che, oltre a Jones (“mai visto in vita mia un simile talento”), s’è conquistato da Pat Metheny ad Herbie Hancock, Peter Erskine e Corea, da David Crosby al Guardian, James Taylor (il grande cantante) e Rafael Saadiq, cascate di lodi a dir poco sperticate. Inutile far pronostici: per entrare nella storia a Collier basterà restare se stesso. Forse meno eclatante ma di qualità garantita, pure l’altro ex enfant prodige lanciato da Jones, al quale l’aveva segnalato addirittura Clark Terry, titano della tromba jazz. Arruolato per due tour mondiali, 2013 e 2014, da Jones, il trentenne pianista americano Jacob Kauflin (17, Pavone, ore 17), ha già un paio di incisioni alle spalle, la seconda prodotta, a ulteriore e non necessaria riprova, dal suo immenso tutore, e a UJ si presenta col fidato trio assieme a Christopher Smith e Billy Williams jr.
Jazz fra i capolavori e per le strade. Oltre alla Basilica di San Pietro, UJ 2016 riporta il pubblico anche fra i superbi capolavori della pittura tre-quattrocentesca della Galleria Nazionale dell’Umbria, alla quale nei giorni del festival, con un qualsiasi biglietto di UJ, si accede con uno sconto. Sarà, come in passato, la sala Podiani il luogo dei recital tutti i giorni dal 9 al 17 luglio a mezzogiorno (euro 15): la vetrina Tuk Music, l’etichetta di Fresu, con Marco Bardoscia, Raffaele Casarano, Dino Rubino, Mirko Signorile e due promesse d’Oriente come il diciassettenne cinese A Bu e l’ancor più piccolo indonesiano Joey Alexander. Come da tradizione, tutto gratis infine per le strade del centro storico perugino. Lungo le quali, ogni giorno più volte al giorno, per la quattordicesima estate di fila saranno i travolgenti, suonanti e danzanti Funk Off dell’illustre Dario Cecchini, veri beniamini del pubblico, a tener banco. Fra gli altri ospiti sui palchi di strade e piazze, da non perdere per nessunissimo motivo il pimpante, gioioso jive di Ray Gelato & The Giants. Ma soprattutto l’incendiario, tonante trombone di Fred Wesley con i New JB’s, ultima reincarnazione della band che fu a fianco di James Brown. Oltre che con lui, Wesley ha costruito la propria solidissima leggenda suonando fra tanti con Count Basie, Ike and Tina Turner, George Clinton. Senza scordare la partnership con un altro formidabile JB’s, il sax tenore Pee Wee Ellis che fu per dieci anni anche direttore musicale di Van Morrison.

Paolo Russo, La Repubblica

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