Ingmar Bergman: il pescatore di perle e illusioni

Da bambino ricevetti in dono un proiettore, scrive Ingmar Bergman in Lanterna magica, autobiografia del 1987 (Garzanti, 2008). E subito rievoca immagini di allora, ombre e fantasmi nati dall’educazione ricevuta dal padre, pastore luterano incupito dal senso del peccato. In un pomeriggio di fine inverno, rimasto solo in casa, mentre la luce obliqua del sole accende il lampadario di cristallo, il piccolo Ingmar intravede la Morte trascinare la sua falce sul parquet del vestibolo. «Vedo il suo teschio giallo e il sorriso – racconta –, la sua cupa figura dinoccolata attraverso i vetri della porta». Pare sia già accanto a lui, la Signora tetra e muta con cui Antonius Block, il cavaliere del Settimo sigillo (1956), trent’anni più tardi giocherà la sua partita a scacchi. Poi, un Natale – forse del 1927 –, arriva il proiettore. L’anno precedente è stato al cinema per la prima volta, subito preso da un entusiasmo che ora, con una pellicola incollata «a formare un cerchio perfetto», può rinnovare da sé. Accanto allo zio Carl, folle e meraviglioso come l’Isak Jacobi di Fanny e Alexander (1982), gira la manovella e – racconta – «la ragazza si svegliò, si mise a sedere, tese le braccia, girò su se stessa e scomparve verso destra. Se proseguivo a girare, lei era di nuovo là e ripeteva esattamente gli stessi movimenti». È questo forse il suo primo film, questo tornare a girare la manovella, questo eterno ritorno di nitrito d’argento.Ma Ingmar fa di più. Incantati dalla magia della pellicola, Lui e lo zio Carl la comperano a metri, già impressionata e a pochi soldi. Lo zio la immerge in acqua di seltz calda – ricorda in Images, l’altra sua autobiografia (1992, Gallimard) –, finché l’emulsione si scioglie e la celluloide diventa «biancore, candore, trasparenza. Netta d’immagini». Insomma, diventa una infinita possibilità. Con inchiostro di china colorato ora può disegnarci «immagini nuove». Alla fine, girando la manovella, sulla parete d’una piccola stanza protetta dall’oscurità nascono altre ombre, altri fantasmi. Sono ben più lievi e avvolgenti degli incubi di quel pomeriggio di fine inverno, e però ne sono i riflessi. Dopo sessant’anni, tutto gli resta vivo nella memoria: «Quando al tavolo di montaggio esamino la pellicola quadratino per quadratino, la sensazione di magia della mia infanzia mi dà ancora i brividi… Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, scintillante, il fruscio della croce di Malta, la mano sulla manovella».Il ragazzino d’un tempo ha imparato che il cinema è un’illusione deliberata, consapevole. Per farla nascere, occorre scioglier via dall’anima l’emulsione su cui la vita lascia i propri segni. Poi, in quel biancore, in quel candore, in quella trasparenza, in quella possibilità infinita, si tracciano con coraggio e fatica nuovi segni, si inventano nuove ombre e luci. Il risultato? Eccolo: «Il cinema è per me un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria».Non sempre è premiata, la fatica, ma talvolta accade. Per il gioco del caso, o perché lo si è cercato, un sentimento affiora su un volto. Non c’è mai stato, non ci tornerà. È legato all’istante. Ma la magia della pellicola l’afferra, quell’istante inafferrabile. Allora, si legge ancora in Images, mi sembra «che sia valsa la pena di giorni e mesi di prevedibile regolarità. Forse vivo per questi momenti. Come un pescatore di perle». Per dirla con la nonna Helena di Fanny e Alexander, per un tal pescatore «tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni».Sono passati cento anni dal 14 luglio 1918, giorno della nascita di Bergman, e undici dal 30 luglio 2007, giorno della sua morte. Dimenticato dai più, o forse solo nascosto nel bagliore intermittente del suo antico proiettore – «ventiquattro quadratini illuminati al secondo, e fra di essi il buio», questo è per lui il cinema –, oggi ci sembra di rivederlo nelle vesti dell’Henrik Vogler di Dopo la prova. Qui è tutto ciò che amo – dice il vecchio commediante di quel film del 1984 –, «le sedie, il tavolo, questo palco, i riflettori, gli attori, la polvere che cade dall’alto, le macchine sotto il palcoscenico». Sono queste le cose importanti, come un tempo il proiettore, la pellicola, l’inchiostro di china. Con questa “macchina” i più abili mentitori creano le più inutili verità, direbbe un altro Vogler, l’Albert Emanuel di Il volto (1958).Può mai stupire che, per quanto inutili, le verità siano comunque dette verità? Certo no, se pensiamo alle ombre di morte che visitano il piccolo Ingmar, e a come le trasfiguri, facendone un universo senza fine. Il solo modo di avvicinarsi all’infinito, dice Henrik, è «superare il dubbio» con la macchina teatrale (o cinematografica). Quello che non convince o non è chiaro nel “testo” – nell’emulsione dell’anima su cui la vita ha scritto –, può essere cancellato, riscritto. Ecco l’onnipotenza creatrice del cinema (e del teatro): superare il dubbio, avvicinarsi all’infinito. La via delle utili verità create da abili mentitori è indicata nel Settimo sigillo. Se la Morte ci tende agguati cui non scamperemo, si può risponderle con il coraggio assurdo di Antonius Block. Oppure le si può rispondere con l’ironia fatta di terra e di carne dello scudiero Jöns. Ma né il coraggio né l’ironia la fermeranno. La Morte è una Signora che mai smette di trascinare la sua falce. A meno d’essere attori. Recitando, danzando, fingendo, si riesce a ingannarla, o a vivere come se lo si potesse, nel ritorno eterno di abili menzogne. La macchina teatrale (e cinematografica) può trasformare le ombre in gioco e illusione. Per quanto dolorosa sia l’esperienza, i poeti e gli artisti sanno come consolarsi.Il piccolo Alexander di Fanny e Alexander sente nascere in sé questo come se. La sua infanzia dolorosa è alleggerita dall’esperienza del teatro. Saprà dominarli con la regia, i fantasmi che lo visitano. Alexander è un Henrik Vogler agli inizi. Ma dal bambino al vecchio qualcosa è cambiato. Li separano sessant’anni. Alexander ha quasi tutto il suo tempo davanti, Henrik quasi tutto alle spalle. Per quanto il commediante voglia tener fede alla menzogna, la partita a scacchi sta per concludersi. Le prove finiscono, il futuro si accorcia, il dubbio rispunta con un’insistenza mai prima conosciuta… Henrik sta diventando sordo. Questa banalità gli appare più importante della macchina teatrale. «La cosa che più mi preoccupa – confessa –, è che non ho potuto sentire le campane della chiesa». Dopo la prova, la Signora torna con le sue ombre e i suoi fantasmi.Come farà il vecchio poeta, ora, a consolarsi? Nei lunghi anni seguiti a Dopo la prova, il suo cinema (per il grande schermo) resta in silenzio, almeno fino a Verità e affanni. Quel film del 1997, l’ultimo, torna a raccontare di uno zio Carl, e si apre con le parole del Macbeth scespiriano. «La vita non è che un’ombra che cammina», si legge sull’inquadratura nera, «un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi non lo si sente mai più».Carl è vecchio, e assediato da sogni di morte: non più di una Signora che trascina la sua falce, ma di una maschera laida e sfuggente. Il naufragio cui si sta avviando gli pare simile a quello di Franz Schubert. E la grandezza di Schubert vorrebbe far rivivere in un film, il primo sonoro. Quando il suo tentativo minaccia d’essere travolto dal fuoco – il cinema, ricorda Bergman, mantiene tutta la precarietà che agli inizi gli veniva dall’infiammabilità della celluloide –, il film non viene più proiettato, ma viene comunque narrato dall’autore e dai suoi attori, nella sala trasformata in teatro. E Bergman è di nuovo dietro la macchina da presa, leggero nel suo tornare eterno. Lo zio Carl e il suo ormai vecchio nipote, l’uno e l’altro pescatori di perle, sanno ancora come consolarsi.

Roberto Escobar, ilsole24ore.com

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