Magic Johnson, 30 anni con l’HIV: «La cosa più difficile? Dirlo a mia moglie»

La leggenda del basket ricorda la conferenza stampa nella quale rivelò pubblicamente la sieropositività: «Ringrazio il Signore per avermi dato la forza e per avermi guidato». Un annuncio che ha cambiato la percezione della malattia nel mondo e che lo ha reso il simbolo di una lotta che continua ancora oggi

Ora di pranzo, 7 novembre 1991. Nella sala stampa del Forum di Inglewood, a Los Angeles, l’atmosfera è tesa, non vola una mosca: lo staff dei Lakers ha chiamato a raccolta i media per un’importantissima comunicazione riguardo le condizioni di Earvin Johnson Jr., meglio conosciuto come Magic Johnson. Non si allena da alcune settimane, è stato pure tagliato fuori dalla lista dei convocati delle prime tre partite di regular season per un imprecisato «mal di stomaco».

In molti, quel giorno, avevano fiutato che sarebbe arrivata una pessima notizia riguardo la salute del leggendario campione NBA, all’epoca 32enne. Ma nessuno (o quasi) immaginava ciò che Magic, di lì a poco, avrebbe dichiarato pubblicamente, davanti a quel microfono. Aveva ricevuto la notizia del test il 24 ottobre, mentre si trovava a Salt Lake City per un match amichevole: Michael Mellman, medico della squadra, predispose nuove analisi. Che confermarono l’esito.

«Restai seduto immobile in quello studio almeno per due ore», ha raccontato in passato Johnson. «Non riuscivo a capacitarmi che tutto, per me, stava cambiando in quell’istante. E che rischiavo di morire». Sì, in quegli anni si pensava che avere l’HIV significava essere condannati alla fine, era solo questione di tempo: tra l’altro il macigno sulle spalle dell’atleta era ancor più pesante dato che aveva scoperto da poco di aspettare un figlio con la sua Cookie.

«In vita mia ho affrontato i migliori giocatori di basket, ho fatto finali e vinto campionati, conosco bene la pressione», ha detto pochi giorni fa Magic parlando con Gayle King durante CBS Mornings. «Eppure, dire a mia moglie che ero sieropositivo è stata la cosa più difficile, perché l’ho sempre amata tantissimo e non sopportavo l’idea di averle potuto far del male». Per fortuna, le analisi della donna – e quindi anche del bambino in grembo – furono negative.

Un raggio di luce per Johnson, che intorno alle due si presenta in sala stampa con piglio deciso, giacca e cravatta, serio ma non impaurito. «Per cominciare, buon pomeriggio. A causa del virus dell’HIV che ho contratto, oggi devo ritirarmi dai Lakers», esordisce il cestista, scatenando un brusio di fondo. «Prima di tutto voglio specificare che non sono malato di AIDS, perché so che molti di voi vorranno saperlo». Un chiarimento necessario, all’epoca fondamentale.

«Sì, sono sieropositivo, ma ciò non significa che la mia vita sia finita. Mi mancherà giocare, certo, ma diventerò un portavoce della lotta contro l’HIV, perché voglio che la gente e i giovani capiscano che possono fare sesso sicuro. A volte si è ingenui e si pensa che queste cose succedano agli altri. Andrò avanti, sconfiggerò il virus e continuerò a divertirmi», ha concluso Magic, al fianco del storico commissioner David Stern e della moglie, vestita in bianco.

«Un abito che aveva un significato», ha rivelato Cookie. «Non avrei mai indossato qualcosa di scuro, ho scelto quel colore per la sua luminosità, come simbolo di un futuro radioso». Pensare che proprio lei, all’inizio, era scettica sul rivelare pubblicamente la malattia: «A quel tempo c’era poca conoscenza della materia, in moltissimi pensavano che non si potesse neppure toccare una persona con l’HIV. La mia paura è che ci avrebbero trattati come degli appestati».

E invece il discorso di Magic – che per precauzione, dopo gli All Star Game e le Olimpiadi si ritirò dal basket – ha inferto un colpo decisivo contro lo stigma, rivoluzionando la percezione della malattia in tutto il mondo. «Oggi sono trent’anni che convivo con l’HIV», ha scritto lo storico campione su Twitter. «Dio mi ha benedetto. Ringrazio il Signore per avermi dato la forza e per avermi guidato». E averlo reso un simbolo di una lotta che continua ancora oggi.

VanityFair.it

Torna in alto