Salvatores: «In Comedians racconto il lato oscuro dei comici»

«Si può, e come, raccontare il mondo attraverso il comico e analizzare la realtà con uno sguardo ironico?». Correva l’anno 1985 e Gabriele Salvatores, in compagnia di attori allora alle prime armi — come Paolo Rossi, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Bebo Storti, Gigio Alberti — metteva in scena al milanese Teatro dell’Elfo «Comedians» di Trevor Griffiths. Oltre trent’anni dopo lo stesso testo diventa un film — prodotto da Indiana e Raicinema, in uscita il 10 giugno in 250 copie con 01 — con Natalino Balasso, Christian De Sica, Ale e Franz, Giulio Pranno. E la risposta a quella domanda è più articolata di allora. «La comicità è una cosa seria. Nell’85 eravamo giovani anarchici desiderosi di spaccare il mondo, divertirci e mostrare la nostra idea di comicità. Abbiamo riempito il testo di gag. Rileggendolo ho scoperto, per citare i Pink Floyd, The Dark Side of the Moon».

Ovvero?
«Pur essendo del 1976, è molto attuale. Nel film sono fedele al testo, aiuta a riflettere sull’uso di stereotipi e sui pregiudizi per far ridere. Con battute preziose: “Avete così tanta paura degli altri da ridere delle loro disgrazie e piangere delle vostre”. O: “la risata non è il fine ma il mezzo”».

L’eterno dibattito sul politicamente scorretto.
«A fine anni ‘80 lo si è sdoganato, il che per certi versi è un bene. Ma ora se dici una cosa gentile passi per buonista, mentre i politici usano le battutacce per fare gli amici con i loro elettori. Io non voglio amici, voglio padri, che intendano la politica come missione non gag. Ma quello sulla scorrettezza politica è un discorso delicatissimo».

Lei cosa pensa?
«Che va di pari passo con la tua etica personale. Spesso si usa una battuta per eludere un problem, o esorcizzare cose che temiamo, come le donne e il sesso di cui alcuni maschi sono terrorizzati. È sbagliatissimo, la comicità vera dovrebbe liberare un desiderio, non limitarsi a farti vincere una paura. Mentre l’ossessione per la correttezza può essere pericolosa e sfiorare il ridicolo. Come le nuove regole per gli Oscar, o il fatto che sui set ora ci sia il gender manager. O l’idea che Sam Levinson, regista bianco non potrebbe raccontare un regista nero nel suo Malcom & Marie».

Come antagonista del maestro Natalino Balasso ha voluto Christian De Sica. Perché?
«In lui ho intravisto da sempre una malinconia, che in certi versi è vulnerabilità che mi piaceva tanto. Come il fatto che lui credesse alle cose che dice, “cerco comici non filosofi”. Sono le due visioni del film. Quando ha accettato mi ha detto: “lo farò come l’avrebbe fatto mio padre».

Il suo personaggio dice: “la gente vuole solo divertirsi”. Dopo il Covid è così?
«Secondo me no. Capisco che i ragazzi non vedano l’ora di uscire, ma credo la gente abbia bisogno anche di qualcosa che ti permetta di pensare al futuro, come un vaccino. Per questo sono felice che esca ora in sala».

Il prossimo film è «Il ritorno di Casanova» con Servillo.
«Che non sarà Casanova, lo fa Fabrizio Bentivoglio, mentre Toni è un regista della sua stessa età. Come Casanova nel racconto di Arthur Schnitzler, anche il regista vuole tornare a Venezia, lì ha vinto un Leone d’oro ma ora autori più giovani premono. Cominceremo a girare gli ultimi giorni del festival, Alberto Barbera ci ha autorizzato. È un film sul passaggio di età, ma anche sulla possibilità di ripartire sempre. Ci sarà probabilmente Sara Serraiocco, sto ancora cercando Marcolina e vorrei qualche attore di questa esperienza, vediamo chi e in quale ruolo. È il mio primo film non dico autobiografico, ma in cui ci sono parecchie cose che mi riguardano direttamente».

Stefania Ulivi, corriere.it

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