ALESSANDRO CATTELAN: «IL MIO C FACTOR»

L’infanzia con gli amici immaginari, l’adolescenza «proletaria» a Tortona da «tamarretto di provincia», il miraggio di Milano «frontiera come New York». Poi il fattore coraggio (ma anche culo) e la carriera in Tv. Oggi che si gode il nuovo successo di X Factor, continua a non mettersi in posa (a parte qua). Perché «dall’altra parte» c’è stato anche lui

alessandro_cattelanPrima di X Factor, il fattore di Alessandro Cattelan si chiamava solitudine: «Di tempo per stare per conto mio, da ragazzo, ne ho avuto tantissimo. Passavo tutte le domeniche invernali chiuso in camera, con Tutto il calcio minuto per minuto in sottofondo, giocando a pallone da solo e parlando con gente che non c’era. Se sul campo i miei eroi perdevano, ce la mettevo tutta. Ero convinto che più ci davo dentro e più l’Inter ne avrebbe tratto vantaggio. Non avevo un amico immaginario, ne avevo dieci». Ora che i numeri si sono moltiplicati, i sodali sono diventati milioni e Sky già festeggia la sua conduzione di X Factor (prodotto da Fremantle, i live sono cominciati da poco su Sky Uno), il ragazzo di Tortona, nato in quel maggio 1980 in cui Spillo Altobelli festeggiò il dodicesimo scudetto nerazzurro, si augura di pungere ancora: «Prima di condurlo, X Factor non l’avevo mai visto. Mi feci consegnare i dvd e mi misi a studiarlo per capire cosa era stato fatto in precedenza e cosa potevo fare di diverso».
E che cosa capì?
«Che è un bel programma e uno show che sa intrattenere. Una gara in cui si viene valutati da una giuria e che non va presa come una sentenza definitiva sulla carriera di nessuno. Né in positivo, né in negativo: ciò che artisticamente determina vita o morte del concorrente accade sempre dopo».
Perché?
«Perché a X Factor, dove la gara è vera e aspra, la cornice è tutto sommato protetta. I concorrenti tentano di emergere e farsi apprezzare cantando capolavori scritti da altri artisti. Fuori è più difficile e lo so perché fuori, dall’altra parte, sono stato anch’io».
Lei è nato a Tortona, dove riposa Fausto Coppi.
«Volevo andare in fuga anch’io, e da adolescente consideravo Milano non diversa da New York. Ci andavo con Andrea – che ancora oggi è il mio migliore amico – e lo trovavo uno spaventoso mondo di frontiera, con la grande stazione e i ceffi alla Pablo Escobar a ogni angolo. I balordi c’erano anche a Tortona, ma sembravano di una balordaggine più gestibile».
Un padre carabiniere, come quello di Paolo Virzì.
«Papà aveva scelto di arruolarsi un po’ per caso, senza sapere bene cosa fare nella vita e poi una certa attitudine militaresca gli era entrata dentro. Usciva e tornava a casa in divisa, smontava la pistola mettendola in cima all’armadio e a ondate regolari faceva la notte. Le telefonate per i turni – un copione sceneggiato, ma ai miei occhi incomprensibile – me le ricordo ancora: “Ciao, sono Cattelan, mi passi di là?”. Attesa. Assenso: “Va bene”. Poi silenzio, interrotto dal rumore della cornetta abbassata».
Che clima c’era in famiglia?
«Quando papà si arrabbiava c’era poco da ridere. Ma non c’era bisogno di urla né di sberle, bastava lo sguardo. Lo osservavo e leggevo il fumetto che aveva nella testa.
Da lui di schiaffi ne avrò presi in tutto tre. Mia madre invece me le dava quasi ogni giorno, o meglio provava a darmele quasi per dovere, in una dinamica da Wile E. Coyote e Beep Beep, più che da Telefono Azzurro. Il primo viaggio all’estero della mia vita, a Londra, l’ho fatto con lei. Una cosa un po’ da sfigato, ma un po’ sfigato e un po’ tamarretto di provincia, ero».
Sua madre era parrucchiera.
«Aveva in casa i caschi e tutto il resto dell’armamentario. Una volta mi son fatto fare la permanente, con tutti i ricciolini al posto giusto. Mamma tagliava i capelli a mia nonna, alle sue amiche e a tutti i condòmini, proprio come il ciabattino al piano di sopra metteva a posto le scarpe alle famiglie e l’insegnante di francese dava ripetizioni a chi le chiedeva. Si viveva di scambi e di baratti. Era una società ideale, all’epoca la sottovalutavo».
Ha definito la sua famiglia «proletaria».
«Non siamo mai andati a mangiare al ristorante e fino a quando non ho vissuto per conto mio mi è capitato di metterci piede solo per battesimi e comunioni. In vacanza andavamo in macchina nell’ex Jugoslavia in cui per mille lire prendevi un fritto misto lungo un metro, con le partenze immancabilmente intelligenti nel cuore della notte. In verità non mi è mancato niente e non mi sono mai sentito Oliver Twist. In classe c’era soltanto un ragazzo nettamente più ricco di tutti, gli altri avevano le felpe rattoppate, proprio come me».
Mai fumata neanche una canna?
«Molte birre, ma nessuna droga. La prima, anzi il primo e unico tiro di canna della mia vita l’ho fatto l’anno scorso. Me l’hanno passata, ho aspirato, non mi ha fatto nulla, ho subito perso interesse per la questione e il resto l’ha fatto la mia mania per il controllo. Preferisco sapere cosa sto facendo ed essere sempre in grado di reagire, gestire le situazioni, sapere cosa e come rispondere».
Anche in Tv?
«Se entro nell’arena di X Factor ho adrenalina, mai ansia. Non sento il peso dell’emozione e dialogo con l’interlocutore perché lo ascolto senza pensare alla telepromozione o a ciò che devo dire dopo».
Che cosa c’è di più incontrollabile della Tv?
«Io non ho controllato niente. Mi fecero un book ai tempi della scuola e dopo un anno – convocato – partecipai a uno spot per il Festivalbar. Passarono altri 12 mesi e squillò il telefono. A Eddy, un autore di Viva (canale televisivo, ndr) che aveva lavorato a quella pubblicità, in vista del lancio dell’emittente, avevano chiesto di cercare volti utili al progetto. Si ricordò di me e compose il numero. Risposi e andai a fare un provino. Ero l’unico a parlare inglese. Meno di 20 giorni ed ero già in diretta».
È stata fortuna?
«Se non avessi risposto non si sarebbero strappati i capelli e sicuramente non sarebbe arrivato tutto il resto. Il culo ci vuole e ce ne vuole tanto. Ma la fortuna non è meno importante di saper volare al di sopra della difficoltà».
Sciocchezze giovanili?
«Qualche cazzata l’ho fatta. Una sera rubai un segnale stradale. Ho vissuto per anni con un senso unico sulla parete. Quando è arrivata mia moglie, ha preteso di frullarlo: “In cambio ti regalo un armadio, ne hai bisogno”».
Avete due figlie.
«Con la più piccola (Olivia, 8 mesi, ndr) facciamo giochi un po’ scemi che mi danno gioia, con la più grande (Nina, 4 anni, ndr) siamo già alla filosofia. L’altro giorno mi ha detto: “Papà, mi annoio”. “Brava, abituati ad annoiarti, inventati dei giochi e sfrutta il tempo libero”. Tendiamo a darle autonomia, a non metterci in mezzo se discute con i coetanei, a lasciarle anche lo spazio della solitudine».

Malcom Pagani, Vanity Fair

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