Gong Li, vendette e bugie: la diva è una spia in «Saturday Fiction» Gong Li, vendette e bugie

«Sono una spia cinese nella Shanghai del ‘41, mentre gli Usa mi scelgono per fare la giustiziera. Ruoli violenti? Esprimo la forza delle donne»«Nel ruolo di una spia nella Shanghai del 1941 e Hollywood mi vuole per fare la giustiziera. Sul set preferisco esprimere la forza delle donne»

Si chiama Gong, come quel suono che rimanda a riti e non solo alla musica, lo strumento millenario usato da monaci e sciamani dell’antica Cina, il suo Paese. C’era soltanto lei, Gong Li, negli anni 90. Dal piedistallo, con quella sua aria misteriosa, non è mai scesa. La prima attrice cinese a diventare diva globale, un simbolo, tanto che i Red Hot Chili Peppers le hanno dedicato una canzone. Alla Mostra porta «Saturday Fiction» una spy story di Lou Ye, nato come lei nel 1965.La delegazione cinese è imponente, al tavolo siedono in undici, una squadra di calcio nella quale Gong Li è il centravanti. Lei, l’ultima imperatrice, le braccia conserte, annuisce alle cerimoniosità e agli inchini dei colleghi meno celebri. Telecamere asiatiche ovunque, il Lido sembra Chinatown. L’attrice è in gonna di raso rosa su maglia nera, grandi orecchini e capelli a chignon. Prima di rispondere coi suoi toni posati, in cinese mandarino, si prende il tempo di pensare. Un’atmosfera sospesa, pudore e riservatezza. Il viso da bambola di porcellana oggi appartiene a una donna vissuta, forse ancora più bello, di sicuro più intenso. Il sorriso inconfondibile, indecifrabile, da Gioconda orientale, è quello di sempre.

Lei è habitué a Venezia.
«Venezia mi ha scoperta. Dunque vediamo… Nel 1991 venni per “Lanterne rosse” che vinse il Leone d’argento; l’anno dopo presi la Coppa Volpi con “La storia di Qiu Ju”, che diede il Leone d’oro a Zhang Yimou (suo mentore ed ex marito, ndr). Poi “Chinese Box”, “Eros” e nel 2002 sono stata presidente di giuria. Ho molto affetto per questo festival».

Nel film che ruolo interpreta?
«Doppio. Impersono un’attrice celebre che torna a Shangai per una pièce ma in realtà è una spia. Siamo nel 1941, ho una missione complicata nella Cina occupata dai giapponesi, si scatena una guerra di intelligence tra gli Alleati e le forze dell’Asse».

Ha la rivoltella fumante…
«Ma Lou Ye ha dato complessità al mio personaggio, che ha un suo mondo interiore. È una killer che non uccide un nemico indifeso, ha una sua morbidezza e posso esprimere la femminilità. C’è un ex marito da liberare, un padre adottivo, codici e operazioni segrete… si raccolgono informazioni sui piani giapponesi durante la guerra».

È in bianco e nero.
«Per sottolineare il background caotico e pericoloso. Il 7 dicembre del ’41 ci sarebbe stato l’attacco a Pearl Harbor, argomento che tocchiamo. Il film in Cina uscirà il 7 dicembre, giorno dell’attacco aereo giapponese agli Stati Uniti».

Geisha o concubina, però le danno ruoli violenti.
«Soprattutto il cinema americano mi sceglie per la donna vendicativa. Ma per Zhang Yimou in “La città proibita” fui una Lady Macbeth. Prediligo donne determinate, ma adoro le contadine cinesi, volti che hanno la fatica della vita. Al cinema voglio esprimere la forza delle donne, sono una perfezionista che pretende il meglio; nella vita privata sono più easy».

Lei raccontò la Rivoluzione culturale in un film.
«In “Lettere da uno sconosciuto” sono una moglie a cui viene strappato il marito, avviato in un lager come prigioniero politico».

E i suoi genitori furono rieducati da Mao.
«Ero molto piccola, i miei genitori erano docenti universitari. Furono mandati in fabbrica. La gente sventolava bandiere rosse, cantava e urlava per strada. È difficile spiegarlo ai giovani. La Cina è molto cambiata».

E i giovani cinesi?
«Le ragazze sono sempre più simili a modelli occidentali, lavorano tutte, però si mantengono certi ideali, o una certa interiorità legata all’educazione e alla tradizione, a una certa evasività nel mostrare i sentimenti».

Il rapporto col tempo?
«È capitato d’invecchiarmi sul set, non ho avuto paura. La bellezza è tutto l’aspetto, non solo un fatto esteriore, ed è legata a ciò che siamo in grado di trarre dal nostro lavoro. Quando ero ragazza, la bellezza ideale era occhi grandi, viso e bocca piccola, io non appartenevo a quel cliché. Mia madre mi diceva: sarà la cultura a farti bella».

Lei è un simbolo per le attrici cinesi?
«No, non rappresento alcun simbolo. I miei genitori mi dettero la possibilità di seguire la passione per l’arte. Ecco, questa libertà può avere un valore simbolico».

Valerio Cappelli, corriere.it

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