Marcello Foa racconta la rivoluzione Rai

«Venga nella mia redazione», dice Marcello Foa sull’uscio del suo ufficio.

Ma perché, presidente, la chiama redazione? Questo è il Settimo Piano di Viale Mazzini, la sala di comando di tutta la Rai.
«Da giornalista, il mio cuore è sempre in una redazione».

Per questo ne volete tre, e non avete accorpato nel Piano industriale Tg1, Tg2 e Tg3?
«In realtà sono almeno quattro i telegiornali. C’è anche la redazione che verrà creata ora con l’accorpamento di Tgr, Rainews, Rainews.it e Televideo».

Qual è stato il suo contributo al Piano editoriale dell’ad Salini? 
«Il contributo che mi è proprio. Mi occupo di multimedialità e digitale da anni. In più sono giornalista, quindi molto attento affinché riescano questi processi di adeguamento del modo di fare informazione che la Rai ha messo in moto. Per me è fondamentale la difesa autentica del pluralismo. Sono da sempre contrario a una redazione unica per una grande realtà qual è la Rai».

O magari i tiggì principali non sono stati accorpati perché così c’è più da lottizzare?
«È fuori strada. Io le dico che il nostro è un Paese molto articolato dal punto di vista politico e culturale. E la democrazia significa esaltare e valorizzare queste diverse sensibilità. L’impegno morale c’impone di moltiplicare l’offerta ed evitare il rischio dell’omologazione. Un solo tiggì avrebbe un’influenza spropositata».

Ma i tre stanno formando un bicolore giallo-verde. 
«Non è vero. C’è chi dice che questa Rai è identica a quella di prima e chi invece sostiene che è monopolizzata dai nuovi. E questa differenza di vedute è la riprova del nostro equilibrio».

Ma non vede che vi chiamano TeleVisegrad?
«Siamo molto esterofili in Italia. Prima TeleKabul, ora TeleVisegrad. Il discorso è più alto e più profondo. E le assicuro che se i tiggì sono stati feudi dei partiti, così non deve più essere».

Il discorso alto e profondo?
«I partiti tendono a monitorare solo lo spazio che ricevono nei tiggì. Convinti che questo sia il modo per influenzare l’opinione pubblica. Questo era vero negli Anni ‘90».

E adesso? 
«È diverso. Ciò che un telegiornale deve fare è interpretare in maniera intelligente e onesta la realtà. Ed è importante l’apertura a voci diverse».

L’impressione invece è che si stia passando da un mainstream all’altro, da quello di sinistra a quello sovranista. Non è così? 
«La mia filosofia non è questa. A me, il mainstream non piace in nessuna forma. Mi piace invece la pluralità di opinioni. La nostra deve diventare una Rai senza pensiero unico. Questa sarebbe già una rivoluzione».

S’è aggiunta un’altra voce nel panorama politico nazionale. Quella di Zingaretti…
«Premetto che, nel mio ruolo di presidente, non esprimo giudizi politici. La mia impressione, però, è che Zingaretti rappresenti un cambio di approccio e una narrativa diversa rispetto al recente passato del Pd. Stando ai suoi primi passi e alle prime parole, mi sembra un uomo che conosce il valore del dialogo e di un confronto civile. Anche rispetto alla Rai, sarebbe positivo che certe polemiche fossero messe da parte e si ragionasse insieme costruttivamente sul futuro di un’azienda che è patrimonio di tutti».

La Rai anticipa le tendenze del Paese e lei vede in prospettiva un calo della rissosità politica? 
«Me lo auguro, ma non sono un futurologo. Guardando alla Rai, trovo che vi sia un rapporto di collaborazione costruttiva innanzitutto tra me e l’ad. E il Piano industriale, su cui Salini ha fatto un ottimo lavoro, lo ha dimostrato».

La accusano di avere troppa interlocuzione con la politica.
«E io le rispondo così. Il mio ruolo di presidente di una istituzione importante mi impone il dialogo con le altre istituzioni e con la politica in generale. Non vedo dove sia lo scandalo».

Davvero alla guida della direzione che si occuperà dei talk show e a quella del Tgr allargato già punta la Lega?
«Le nomine diventeranno operative solo nel 2020. E già adesso mi dite che praticamente sono state fatte? Siamo alla fantascienza!».

La Rai non dovrebbe alzare il livello dei suoi programmi?
«Secondo me, sì. Abbiamo un numero di canali tale, che ci consentirà sempre di più di differenziare la nostra offerta, privilegiando la qualità. Per la Rai, che è servizio pubblico e beneficia di un canone, è quasi un dovere alzare il livello del prodotto e non guardare solo agli ascolti».

Più Piero Angela per tutti? 
«La puntata di Angela sulla Shoah è un esempio da seguire».

Intanto non è un problema l’indebolimento, con la nascita delle divisioni tematiche, del potere dei direttori di rete? 
«Può essere un problema, se si guarda alla cosa con lo spirito del passato. Ma nella nuova Rai, il cambiamento si traduce in un diverso utilizzo delle competenze. Non è un fatto personale, ma un’esigenza epocale».

Per finire, ci consenta un dubbio: è incredibile che non si scateneranno gli appetiti giallo-verdi su chi comanderà sui talk show.
«Le posso assicurare che anche la gestione della fascia approfondimenti risponderà agli stessi criteri delle altre fasce. Ovvero a una ottimizzazione dell’offerta e a un pieno rispetto delle competenze e del pluralismo. Io sono contrario, come lo ho detto, al tiggì unificato e anche alla riedizione dei conduttori unici delle coscienze. Godiamoci la democrazia».

Mario Ajello, Ilmessaggero.it

 

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