Anita Caprioli: i miei ruoli appassionati e un Twilight all’italiana

Agli inizi della carriera, dopo che aveva già recitato per Salvatores e Verdone, Anita Caprioli diceva che le piacevano i percorsi laterali, sembrava una che sfuggiva a una collocazione precisa, fuori da ogni schema.

Sono passati vent’anni…

«Vent’anni che mi hanno regalato tante esperienze belle, fatico a staccarmi da storie e incontri, penso anche alle opere prime di Pietro Castellitto, I predatori, e di Alice Rohrwacher, Corpo celeste è un film che ho nel cuore».

Dove recupera le sue radici, per metà meridionali.

«Sì, sono una madre calabrese (come mia madre vera), lasciata dal marito, che fatica a mantenere la famiglia da sola. Tornare a Reggio mi ha ricordato l’infanzia».

Ma lei è nata a Vercelli.

«Lì si conobbero i miei genitori. Mio padre era del Nord. E anch’io sono spaccata in due, nel mio modo di essere istintiva e meditativa, nel lavoro, tra cinema d’autore e fiction popolari».

Sempre però con personaggi lacerati, appassionati e fragili.

«Infatti amo Isabelle Huppert. A proposito di dualismo, dopo Rohrwacher recitai in Immaturi di Genovese».

Una commedia, ma …

Ride: «Ma anche lì, in una storia leggera, mi capitò l’unico personaggio con una introspezione difficile e profonda, interpreto una donna che ha il cancro al seno».

Un ruolo davvero leggero?

«Liberi tutti è una serie divertente, dirigo una comunità eco-solidale, la condivisione degli spazi, il vivere tutti insieme, il restare avulsi in qualcosa di pulito e di etico: è difficile immaginarlo oggi».

Si sarà ricordata dei suoi genitori ex sessantottini?

«Sono cresciuta con una grande indipendenza, avevo praterie davanti a me dove potevo scegliere qualunque cosa. Ci sono aspetti positivi e negativi. Impari presto a capire dove andare e con chi. Le mie amiche avrebbero preferito avere i miei genitori, io avrei voluto più controllo. Il valore della libertà lo capisci più tardi, crescendo».

E lei che madre è?

«Cerco di essere alle spalle di mia figlia. Viola ha quasi 5 anni, io debuttai a teatro che ne avevo 6 (mia madre è attrice, mio padre scenografo, il teatro era casa), dovevo fingermi morta in un adattamento da Brecht, ma distesa sul palco mi veniva da sbirciare la scena. Il mio compenso fu una bambola».

Nei «Predatori» ci sono famiglie disfunzionali.

«C’è la borghesia inerte che ha tutto e non sente più nulla, e ci sono i proletari fascisti considerati meno di zero. È uno spaccato con una ironia inusuale».

Il suo compagno è Daniele Pecci.

«Ci portiamo il lavoro a casa in un modo sereno. Non è capitato di recitare insieme, lui ha fatto tanto teatro. Mi spiace dirlo, ma il lockdown per noi è stato un regalo, finalmente ci siamo ritrovati con la nostra bambina».

In «Ridatemi mia moglie» di Alessandro Genovesi ha come padre Abatantuono: un padre ingombrante?

«No, ha un forte senso della famiglia, sia lui che mia madre, che è Carla Signoris. È una mini serie di Sky. Io sono una moglie in crisi di routine che mio marito, Fabio De Luigi, ignora totalmente. I miei genitori pensano che sono impazzita, che sto distruggendo il matrimonio, che sono la pecora nera. Come attrice sono in età di madre, credo che l’istinto materno appartenga a tutte le donne, anche a quelle che non hanno figli, è qualcosa che va oltre».

Lo sarà anche per il nuovo film di Andrea De Sica.

«Non mi uccidere è un teen-drama gotico, un thriller fantasy destinato alle sale, liberamente ispirato al romanzo di Chiara Palazzolo e fa parte di una trilogia. L’hanno già definito il Twilight all’italiana. Due ragazzi si promettono amore eterno in una notte di luna piena, restano uccisi, io sono la madre disperata di lei, che si risveglia trasformandosi in una creatura che per sopravvivere ha bisogno di carne umana. Il linguaggio è reale, l’elemento fantasy si mischia all’elemento realistico».

Oggi ci sono più ruoli di spessore per le attrici?

«Noi donne veniamo raccontate meglio grazie alla serialità, penso a Unorthodox, una giovane ebrea che si ribella alla sua comunità ortodossa. Se fosse stato un film, sarebbe andato a un festival ma forse senza uscire nelle sale. Così, invece, è una delle serie più viste. Mi affascinano i personaggi non risolti, mi piace indagare sull’inquietudine dell’essere umano».

Valerio Cappelli, Corriere.it

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