Arrivano le figlie di… Depp, Hawke, Kravitz: il cognome aiuta la carriera?

Tante figlie d’arte vogliono dimostrare di essere brave malgrado i genitori celebri. Lily-Rose Depp: «Non ti assumeranno solo perché il tuo cognome fa bella figura sui poster»

Raccomandate dal cognome, un trampolino e una zavorra, una fionda e un macigno, un aiuto e il peso di un confronto perenne. La via delle figlie d’arte verso il successo è una discesa in salita, un rettilineo pieno di tornanti: ogni volta il paragone, il parallelo, il raffronto, lo specchio in cui vedi riflessa l’immagine del tuo celebre genitore. L’ultima a provare a uccidere freudianamente il padre è Francesca Scorsese, figlia di un monumento vivente. Per lei però niente regia, ma prove da attrice. Appena 19 anni e già scelta — conterà il cognome? — da Luca Guadagnino per la serie Sky-Hbo We Are Who We Are, una storia di formazione con protagonisti due adolescenti americani.

Lily invece di cognome fa Collins, come il Phil leggenda con i Genesis e pure in proprio. Rapporto complicato fin dal principio perché lui lasciò Lily e sua madre — la seconda moglie Jill Tavelman — via fax: basta Inghilterra, vado in Svizzera, tanti saluti. I ruoli che rimangono nell’immaginario del cinema non sono ancora arrivati (adesso ha 30 anni): «Tutti pensano che ogni porta ti si apra quando hai un genitore famoso, in realtà nel mondo dello spettacolo tutti siamo facilmente sostituibili: per essere presa sul serio devi continuamente provare di essere capace».

Zoe Kravitz ha sempre vissuto in mezzo alle celebrità: la madre è Lisa Bonet, una grande popolarità (poi affievolita) grazie al telefilm dei Robinson, il padre è la rockstar Lenny Kravitz: «Quando mi veniva a prendere, nel parcheggio della scuola si radunava sempre una grande folla». A 30 anni forse è arrivata la svolta, grazie al personaggio che interpreta in una serie non banale come Big Little Lies accanto a Nicole Kidman, Reese Witherspoon e Meryl Streep.

Anche Lily-Rose Depp (20 anni) ha a che fare con una coppia di genitori di peso: il padre Johnny con il suo contorno di mostri interiori, la madre Vanessa Paradis. Il cognome per lei è un piombo: «Ho sempre avuto l’impressione di dover faticare il doppio per dimostrare che sto lavorando non solo perché mi capita di averne facilmente l’occasione. È abbastanza complicato vivere con l’attenzione costante del pubblico quando sei giovane e cresci sotto i riflettori. Non siamo definiti dal nostro nome: se non vai bene per qualcosa, non ti assumeranno solo perché il tuo cognome fa bella figura sui poster». Si fa strada anche la 21enne Maya Hawke, figlia di attori eccellenti come Uma Thurman e Ethan Hawke, e già un curriculum di qualità: il ruolo della sarcastica Robin in Stranger Things 3, una parte che suscita subito curiosità (l’erede di sua madre nel possibile terzo episodio di Kill Bill), il suo nome nel cast di C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, dove figura anche Margaret Qualley, la figlia 24enne di Andie MacDowell.

Willow Smith, 18 anni compiuti lo scorso ottobre, deve invece vedersela con Will, istrione prima ancora che attore e cantante. Lei segue le sue tracce, tra musica e cinema, ma per ora nella società dove più è strano più fa clic, si è fatta notare soprattutto per le sue riflessioni sul poliamore, ossia la filosofia per lo meno triangolare secondo cui è possibile mantenere più relazioni contemporaneamente, a condizione che tutti i soggetti coinvolti ne siano a conoscenza. Quella che ha fatto secchi padre e madre è Dakota Johnson, figlia degli attori di un tempo ormai andato Don Johnson e Melanie Griffith. Dopo le cinquanta sfumature di tutti i colori, la carriera è decollata. Il suo era un destino segnato: «Sono cresciuta girando filmini coi miei amici e circondata da gente di cinema, conosco solo questo mondo. E ho paura, sempre. Paura di fallire, solo non lascio che la paura mi inibisca. I set sono sempre stati casa per me, una casa strana, ma io sono cresciuta cambiando molte città e molte scuole, sono abituata al moto perpetuo. Il denominatore comune era il set, una certezza. L’unico posto dove mi sento centrata, un concentrato di emozioni estreme».

Renato Franco, corriere.it

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