Pierluigi Diaco contro i Social: «È una dittatura culturale, assurdo che i media gli diano così importanza». E sulla Rai: «Stimo Coletta, e ho già pronto un nuovo progetto»

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«Non è possibile». La sentenza è arrivata nel pomeriggio di ieri, inappellabile. Pierluigi Diaco, che ha condotto ogni pomeriggio su Rai 1 la sua trasmissione Io e Te, non potrà salutare i suoi telespettatori. L’esito del tampone di una persona dello staff del programma ancora non è arrivato, e pertanto andare in onda sarebbe un rischio che non si può correre.

Diaco, niente saluto ai suoi telespettatori. Le dispiace?

«Moltissimo. Spiace a me, a Katia Ricciarelli e a tutta la squadra che ha lavorato con me per 141 puntate di ‘Io e Te’. È evidente che noi avevamo messo in conto che sarebbe potuto accadere una cosa del genere. Nessuno è immune da questo virus. Il nostro primo pensiero è per la collega risultata positiva. Francamente, rispetto a un virus che ha portato via dalle case di molti nostri connazionali nonni, padri, amici degli italiani… noi facciamo solo tv».

Nel Day Time di Rai Uno la sua trasmissione è quella andata meglio per numeri assoluti.

«I numeri parlano di un apprezzamento alto e di un’affezione di chi ci ha seguito con costanza: chi ha scelto il programma non ci ha più lasciato. Il pubblico è cresciuto di settimana in settimana. Ringrazio sia il direttore Stefano Coletta sia Teresa De Santis che l’ha preceduto per la libertà editoriale e la piena autonomia autoriale che mi hanno concesso».

Perché la Rai ha scelto di fare a meno di Diaco se la sua trasmissione ha avuto successo?

«Ho stima di Stefano Coletta, abbiamo avuto un incontro qualche giorno fa cordiale e proficuo. Non giudico un direttore dal fatto che mi faccia lavorare o meno. Non credo che la Rai mi debba qualcosa. Ho già presentato una proposta per il 2021. Non mi piace fare la vittima. Sono attraversato da un sentimento di gratitudine».

In Rai quindi si sente a casa?

«Ho incontrato in questo percorso dentro Rai 1, sia nella rete sia nei reparti produttivi, persone entusiaste e che hanno dato il massimo. Sono orgoglioso e grato. Sono proiettato in avanti».

Hanno insinuato che qualcuno sia stato contento per la sua mancata presenza nei palinsesti autunnali. E’ vero?

«Non mi risulta e non lo devi chiedere a me. Non esulto mai per i  problemi altrui, sono abituato a condividere i momenti di gioia, per mia natura».

Quindi sbaglia chi ha scritto che fosse risentito con la Rai.

«Le scelte dei direttori sono insindacabili. Avevo un impegno con la Rai che scadeva il 4 settembre, non si è mai parlato di andare oltre questo tempo con ‘Io e Te’. Non nascondo che mi sarebbe piaciuto tornare alla collocazione della seconda serata del sabato: qualora avessero voluto, ne sarei stato felice. Ma nessuno mi ha mai detto che il tempo di programmazione sarebbe andato oltre».

Sui social invece l’hanno messa nel mirino. Dicono che sia diventato aggressivo.

«Basta riguardarsi le puntate su RaiPlay per capire che ciò che veniva scritto in quel mondo virtuale, composto spesso da persone che salgono in cattedra a dare le pagelle alla vita professionale altrui, non corrisponde alla realtà. L’ho percepito anche dalle tante lettere che ho ricevuto».

Perché questi attacchi?

«Penso che ci sia una dittatura culturale che radio e televisioni subiscono, con una sudditanza che mi colpisce. I media tradizionali sono molto più importanti di twitter. L’agenda degli argomenti non la possono dettare i social: dovrebbero farlo i media tradizionali, con argomenti che poi magari i social discutono. Preferisco i sapori del mondo dell’era analogica». 

Pensa che ci fosse una regia dietro gli attacchi che ha ricevuto sui social?

«Non lo so e non mi interessa. Due mesi fa sono uscito dai social e non ho più visto nulla. Non mi interessa neanche troppo leggere di me stesso. Posso leggere una critica di un giornalista o di un telespettatore che mi scrive, ma non perdo certo tempo con quello che scrivono sui social dove ci sono troppe semplificazioni e troppa superficialità».

C’è qualcosa che l’ha ferita?

«Mi colpisce e mi ferisce la cattiva fede. I social danno una rappresentazione del Paese in cattiva fede, e non è vero. Il Paese è migliore di quello raccontato in rete. E’ un Paese in cui c’è bisogno di silenzio. Chi sta sui social è ormai un tuttologo. Parlano di tutto anche se non hanno nulla da dire».

E di chi sarebbe la colpa?

«Quando tu rendi accessibile a tutti la possibilità di dire, fare, polemizzare, criticare senza regole e senza limite e senza una legittimazione per esprimersi con argomenti complessi, il tenore della conversazione si indebolisce».

Mica verrà tornare indietro, Diaco.

«Non credo che ci sia bisogno di tornare indietro. Basta che i media tradizionali la smettano di dare importanza ai social. Sono un circolino che non rappresenta affatto il tasso di umanità che attraversa i cittadini. L’era digitale ha imbarbarito l’essere umano».

Mi scusi Diaco ma si riferisce a qualcuno?

«No».

Ce l’ha con i social…

«Non ce l’ho con nessuno. Credo che il tipo di attenzione che viene dato a ciò che succede in rete sia smodata. Denota una certa pigrizia di alcuni colleghi che montano pezzi basandosi su una manciata di tweet che circolano in rete».

Diaco, ma quindi l’appuntamento con i telespettatori quando lo diamo?

«Non lo so».


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