Domenico Modugno, puro genio della canzone: con “Volare” incantò un’intera nazione

Il ricordo a 25 anni dalla morte di un monumento della canzone italiana: l’unico uomo capace di portare un intero paese a tuffarsi nel blu, ovviamente dipinto di blu

Quando Ennio Moricone e Pier Paolo Pasolini ebbero l’idea di musicare i titoli di testa di Uccellaci e Uccellini, sapevano di poter contare sull’unico talento in grado di rendere non solo credibile, ma anche decisamente gustosa, un’operazione così bizzarra. Guardare per credere. Mimmo Modugno era così, un concentrato di energia vitale, un guerriero, uno spavaldo moschettiere in grado di dar vita praticamente a qualsiasi cosa, anche a un arido elenco di nomi. Una personalità talmente prorompente da spingerlo a essere tante cose diverse: attore, rumorista, autore di canzoni, cantante, comico, politico, ma soprattutto, questo va ricordato e ribadito, un puro e fiissimo genio della canzone.Prima ancora di mettere mano, insieme a Franco Migliacci, alla canzone che ne avrebbe per sempre segnato il destino a livello planetario, e che parlava di un metaforico salto nel blu infinito capace di incantare un’intera nazione, aveva già scritto e inciso canzoni degne di una carriera di primo piano, anche se in pochi se n’erano accorti. Una su tutte: Vecchio frac, che risale addirittuta al 1954, capolavoro assoluto e caso esemplare di canzone che riusciva a coniugare un crudo, tristissimo caso di cronaca vera, ovvero il suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia, e la visione notturna di una città magistrale e indolente che respira come una quinta teatrale.Di Modugno, prima ancora delle melodie avvolgenti, prima ancora delle storie, degli accenti dialettali, della malìa da cantastorie, arrivava l’energia, lo slancio vitale di un uomo che sembrava incarnare il più ancestrale desiderio umano di comunicare. Su questo era davvero invincibile, affrontava e domava qualsiasi mezzo, fosse il teatro musicale di Rinaldo in campo, o le urla pagane di Lu pisci spada, fossero le macchiette comiche della donna riccia e della sveglietta, oppure il festival di Sanremo, che ha occupato con tale convinzione da vincerne ben quattro edizioni.Sapeva far ridere, sapeva essere il più romantico dei romantici quando carezzava il dialetto napoletano di Resta cu’mme, poteva essere epico o sbarazzino, toccare la vetta sublime di Meraviglioso, e poi scadere nella melma di Piange il telefono, o peggio ancora de Il maestro di violino. Glielo chiesi, da apprendista e timido giornalista: maestro, mi tolga una curiosità, non riesco a spiegarmelo, perché mai ha inciso una canzone come Piange il telefono? Per scommessa, rispose Modugno, e in quella risposta c’era tutto un mondo.La vita era una sfida, da affrontare tutti i giorni, sempre e comunque, un film dopo l’altro, palcoscenico dopo palcoscenico, ogni canzone era un grido di bellezza lanciato versoil cielo, un’invocazione di complicità rivolta alla gente, anche quando arrivò un colpo terribile, una malattia che avrebbe piegato chiunque, ma che per lui diventò un’altra sfida, l’ennesima. C’erano mille violini suonati dal vento, c’erano tutti i colori dell’arcobaleno, ciao ciao bambina, un bacio ancora, il suo modo di far canzoni era il film del sentimento collettivo. L’unico uomo capace di portare un intero paese a tuffarsi nel blu, ovviamente dipinto di blu.

Gino Castaldo, repubblica.it

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