Flavio Insinna: «La tv mi mette ansia. Mio padre? Era medico. E mi ha insegnato che ci si aiuta. In mezzo al mare di più»

«Il confronto non c’è. È come un calciatore con Pelé: giochi anche tu a pallone, fai lo stesso sport, con la stessa palla e le stesse regole, ma non sono pazzo, non c’è nessuna presunzione di confronto». Flavio Insinna ritrova sulla sua strada Corrado. Era già successo con La corrida, succede dieci anni dopo con Il pranzo è servito (Rai1, da lunedì a venerdì, ore 14).

Non si possono fare confronti?
«Se pensi al confronto non ci vai, è un brivido, una grande paura. Vedevo Il pranzo è servito da ragazzino tornando da scuola, la musichetta già nella tromba delle scale, mai avrei immaginato di arrivare a farlo. Ma il confronto no. Vale anche per la fiction. Ho interpretato don Bosco, don Pietro Pappagallo ucciso alle Fosse Ardeatine, lo sai che sei inadeguato come uomo e come attore. Ho avuto dei grandi maestri, Gigi Proietti, Nino Frassica, Diego Abatantuono che il mestiere me l’hanno spiegato bene: nessuno si deve sentire indispensabile. Dico sempre: ricordatevi che De Niro al provino del primo Padrino non fu preso, e il film non è venuto brutto. Conosco i miei limiti, difetti, le cose da migliorare».

In cosa deve migliorare?
«Alle volte uno pensa di dover aggiungere, invece c’è da sottrarre. Io ho il pudore di fare un mestiere da artigiano, la parola artista non è per me: se artista è associato a Picasso, io non posso stare nella stessa frase. E non è finta modestia. È consapevolezza. Un giorno in montagna: mattina presto, ero in funivia, io e un altro ragazzo, vestito tutto rattoppato. Usciamo dalla cabina e scompare nelle neve come un delfino nell’acqua, un suono di sci mai sentito nella mia vita. Era il campione del mondo Marc Girardelli. Noi umani scendiamo, quelli sciano; è un’altra cosa. A volte per entusiasmo si esagera, come quando vai a una festa e porti le pastarelle, il vino, magari pure il limoncello e i fiori. Bisogna levare quell’eccesso che non serve. A volte fai di piu perché pensi di non aver portato abbastanza pastarelle».

Vive il mestiere con ansia?
«Vittorio Gassman, un monumento, era terrorizzato di fare quel passo lì, per entrare in scena, dal buio al palco. Poi si accendeva e diventava lui. Ma se il mestiere lo senti, non ti abitui mai, è sempre un debutto, si riparte ogni giorno da zero a zero perché non hai fatto niente, è questo l’insegnamento del teatro. Quell’ansia lì c’è sempre, poi cerchi di tramutarla in forza, tenti di non farti paralizzare, ma non sarà mai una passeggiata. L’ansia, tanta, ci sarà sempre. Ho un entusiasmo intatto dentro di me, sono ancora quasi incredulo. Io non mi approccio mai da addetto ai lavori. A Proietti, ho studiato con lui, non sono mai riuscito a dire ciao Gigi».

Proietti prima, Frassica e Abatantuono poi: cosa le hanno insegnato?
«Che nonostante tutto, proprio perché la vita è faticosa, la devi guardare con gli occhi di un bambino, devi ribaltare le prospettive. Gigi, il maestro, Nino, Diego: il loro racconto, il loro aneddoto è sempre fatto con una maestria da studiare, come apprendisti nella bottega di Giotto. Riescono sempre a ribaltare il punto di vista, applicano alla lettera il concetto del verbo divertire, che viene da divertere: è un cambio, un andare da un’altra parte, spiazzarti. Montale direbbe l’imprevisto, una cosa che in un viaggio ti devi sempre augurare. In questo Nino è straordinario. Giravamo Don Matteo di notte, salta fuori un pallone, partitella improvvisata. Nino si affaccia dalla sua stanza: Flavietto, scusa ma qua ci sono dei maleducati che dormono… Ribaltare sempre, ecco la strada».

Perché «Il pranzo è servito»?
«Perché è un piccolo classico, quando parte la musichetta e gira la ruota, non dico che è ipnotico, che risveglia la memoria collettiva… però sì, quel tocco ce l’ha. Non aveva senso stravolgerlo, giochiamo con parole, domande, curiosità, è un gioco aperto a tutti, in leggerezza e allegria».

È in tv tutti i giorni (prima anche con «L’eredità»): non rischia di essere una droga?
«Il teatro è il mio modo per rimanere con i piedi piantati per terra. Per me 400 persone sono un teatro pieno. L’importante è non perdere il senso, il valore delle cose. Il teatro permette di sorvegliarsi; andare in giro per l’Italia è il modo per capire di te, per comprendere cosa arriva alle persone di te».

Le hanno mai proposto di entrare in politica?
«No. Io ho un rapporto fortissimo con Gino Strada e Emergency; con il sindacalista Aboubakar Soumahoro; ho un’attività importante nelle terre confiscate dalla camorra a Maiano di Sessa Aurunca. Nel mio piccolo faccio politica così. Penso che la grandissima fortuna che ho avuto nella mia vita la devo rimettere in circolo. Mio papà era medico e mi ha insegnato che ci si aiuta, ci si salva, in mezzo al mare ancora di più».

Ha fatto pace con Antonio Ricci?
«Io vivo a Roma, non mi è capitato di incontrarlo… Sono una persona coscienziosa, io devo fare pace con me, con il mio comportamento: se lo sbagli, lo sbagli. Non c’è se e non c’è ma. Io devo fare pace con me, devo perdonarmi io».

Da dove viene questo rigore?
«Viene da mio padre che era siciliano ma in famiglia soprannominavano il tedesco. Io sono quello che pensa sempre di aver portato poche pastarelle».

Lei è molto esigente con se stesso?
«Sì, da morire».

Renato Franco, corriere.it

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