LA RINASCITA DI RUPERT: “FELICE DI NON ESSERE GIOVANE. E STUFO DI FARE L’AMICO GAY”

163053542-5dc23e72-50a4-4083-a705-4dae970d4657(di ALESSANDRA VITALI, look Repubblica) L’attore lavora a un biopic su Oscar Wilde, sarà in altri tre film e racconta il rapporto fra Hollywood e omosessualità. “Ho avuto successo nell’era Clinton, poi è arrivato Bush. Con i conservatori non potevo certo vincere io…”.
È la storia di un uomo di successo, colto brillante ed eccentrico, conteso dai salotti, celebre anche oltre i confini nazionali. Finito come un reietto per il solo fatto di essere gay, sbattuto ai margini della società. Uniche amiche, quattro prostitute sdentate. Rupert Everett racconta il “suo” Oscar Wilde, protagonista di un progetto cinematografico al quale sta lavorando da otto anni, una vaga ispirazione autobiografica quando spiega che vorrebbe portare al cinema “la storia di uno che aveva tutto e alla fine s’è ritrovato senza niente perché era gay”. Per l’attore britannico, oggi 56 anni, non è andata proprio così ma non si può nemmeno dire che la sua omosessualità dichiarata l’abbia aiutato in una carriera cominciata più di trent’anni fa (è dell’84 Another Country di Marek Kanievska, in concorso al 37esimo Festival di Cannes), passata attraverso i maestri italiani (Rosi, Montaldo), i grandi americani (Paul Schrader, Robert Altman, John Schlesinger), le commedie-cult (Il matrimonio del mio migliore amico, 1997), proseguita con molto teatro ma pochissimo cinema mainstream. “Il mio successo ha coinciso con il passaggio dall’era Clinton all’era Bush, e in un clima di forte conservatorismo non potevo certo essere io il protagonista dei film importanti”.

Abbiamo incontrato Rupert Everett alla 61esima edizione del Taormina Film Fest, è stato uno degli ospiti internazionali, ha ricevuto un premio alla carriera. Che sia passato del tempo, da quando interpretava ruoli da giovane sciupafemmine, si vede. Restano il fascino, la gentilezza di un signore molto british in cui l’eleganza compassata cede a tratti il passo a battute feroci, autoironiche, anche in italiano. “Per me essere gay a Hollywood non rappresenta più un problema, anzi, quando diventi una vecchia frocia ti si aprono molte porte: se mi mettono una scopa in mano, posso anche interpretare una strega”.
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Uscito nel 1997 per la regia di P. J. Hogan, la commedia romantica “Il matrimonio del mio migliore amico” (“My Best Friend’s Wedding”) vede tra i protagonisti Julia Roberts, Dermot Mulroney, Cameron Diaz e, naturalmente, Rupert Everett. In un susseguirsi di colpi di scena, lo scopo di Julianne (Julia Roberts) sarà quello di far saltare il matrimonio dell’ex amante Michael (Dermot Mulroney) con Kimmy (Cameron Diaz) “utilizzando” l’amico gay George (Rupert Everett) per farlo ingelosire. Ma le cose non andranno proprio bene…

Però il problema esiste. O no?
“Il problema non è Hollywood, sono le lobby degli esercenti. Nessuno ti impedisce di fare film perché sei gay, ma poi quei film non vengono distribuiti, le sale non li prendono, e se un film non va in sala la tua carriera ne fa le spese. La cosa buffa è che è pieno di etero che vogliono interpretare gay, ma il contrario non si può fare. Il difetto della nostra epoca è che la grande libertà ha portato anche a una recrudescenza di puritanesimo. Qualcosa sta cambiando, ma lentamente, negli Stati Uniti e in Europa”.

L’Irlanda, ad esempio.
“Il risultato del referendum sulle unioni gay è stato sorprendente, in quel paese ti saresti aspettato tutt’altro, ma negli ultimi vent’anni sono stati capaci di cose straordinarie, anche di affrontare una gravissima crisi finanziaria. Di contro, mentre gli irlandesi scendevano in piazza a festeggiare, nell’illuminata Francia c’erano migliaia di persone che protestavano. È un’epoca di contraddizioni, ma dai contrasti qualche volta nascono buoni risultati”.
FotoLa rinascita di Rupert: “Felice di non essere giovane. E stufo di fare l’amico gay”
Rupert Everett con il premio alla carriera del Taormina Film Fest

Da anni lavora al progetto di un film su Oscar Wilde. Ha incontrato molte difficoltà ma non molla. Perché ci tiene tanto?
“È una storia emblematica, una dinamica comune e archetipica, raggiungere la vetta e poi precipitare all’inferno. E poi ci tengo molto a realizzare un film “europeo”, in senso geografico e culturale. Vorrei girare in Irlanda, Gran Bretagna, Francia e Italia, sarà parlato nelle lingue originali dei paesi, una produzione niente affatto glamour. Finora ho trovato grande attenzione in Italia, ho fatto alcuni incontri molto fortunati con la Palomar. Diverso è stato con i francesi, sono nazionalisti in modo paranoico, appena vedono uno straniero diventano pazzi”.

Sarà anche il protagonista del film. Che Oscar Wilde vedremo?
“Quello che credo sia stato, insieme a Verlaine, uno dei più grandi vagabondi di tutti i tempi. Non l’Oscar Wilde amico della regina, invitato ai grandi party, creatore di aforismi fulminanti, ma l’uomo che vive in strada, in miseria, costretto a lasciare tutto quel che aveva conquistato. Un po’ come una di quelle rockstar che cadono in disgrazia. Sarà un Oscar Wilde rock’n’roll”.

Quello con il cinema italiano è un feeling antico. Ha lavorato con Rosi in Cronaca di una morte annunciata, con Montaldo in Gli occhiali d’oro, con Michele Soavi in Dellamorte Dellamore…
“Sento l’orgoglio di aver partecipato a un pezzo della storia del cinema italiano, quella dei grandi autori, iniziata dopo la guerra, ma che di lì a breve sarebbe finita. Di Montaldo e Rosi ricordo la grande maestria, ero giovane, avevo tanto da imparare, il solo osservare Gian Maria Volontè era una lezione. Soavi, poi, è stato straordinario nel trasporre il fumetto in maniera creativa, innovativa. Mia madre mi venne a trovare sul set di Rosi, vide Ornella Muti, mi disse “devi assolutamente sposare quella ragazza, è la più bella che abbia mai visto”. In effetti lo era. Di quel film non mi piaceva molto com’era venuta la parte in cui ci reincontriamo da vecchi, dissi a Rosi, scherzando, “rivediamoci fra vent’anni e rifacciamola, sarà più naturale”. Invece oggi sarebbe impossibile, perché Ornella Muti in realtà è ringiovanita…”.

Su YouTube, cercando i suoi video, la scena finale di Il matrimonio del mio migliore amico è quella con il maggior numero di visualizzazioni. In Italia il film è un cult.
“Quella scena fu girata sei mesi dopo la fine delle riprese. Non avevo un gran ruolo all’inizio, ma col passare del tempo il regista J. P. Hogan e io diventammo molto amici, e fra le varie sequenze fu aggiunta anche quella. Un bel ricordo, ma quando hai successo con un film così, rischi che ti propongano solo ruoli di quel tipo, il migliore amico gay. Alla fine ti stanchi tu e si stufa il pubblico. Per questo dissi no a Il diavolo veste Prada, dove avrebbero voluto replicare il personaggio”.

La vedremo in Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children di Tim Burton, Altamira di Hugh Hudson, con Antonio Banderas e A Royal Night Out di Julian Jarrold in cui interpreta Giorgio VI, come Colin Firth in Il discorso del re.
“Ma non ci sarà confronto con l’interpretazione di Firth, lui è stato eccezionale nel rendere la figura di un uomo che divenne re suo malgrado, la mia è una parte piccina, le protagoniste sono Elizabeth e sua sorella Margareth in una notte di festa per la fine della guerra. Anche nel film di Tim Burton faccio una piccola cosa. Mi piace molto il ruolo di Altamira, la storia di un esploratore che scoprì delle grotte con dei graffiti preziosi. Sono un cardinale cattivissimo che si oppone all’idea che possa essere esistito qualcosa prima della nascita di Cristo”.

Il cinema, il teatro, ha fatto anche tv. Ha scritto due libri, Bucce di banana e Anni svaniti. Scriverà ancora?
“Scrivo sempre, ho appena finito una sceneggiatura e un soggetto per una serie tv, in questo momento ho le mani in parecchie cose. Quanto al teatro, in Italia fai sei spettacoli a settimana, in Inghilterra sono nove: è come avere un falso orgasmo ogni tre minuti, un lavoro durissimo. Uno stress diverso rispetto al cinema perché sul set puoi ripetere, ma sul palco hai una sola possibilità di fare una cosa fatta bene. La tv, poi, comincia a perdere colpi, ormai pochissime persone hanno un appuntamento con il programma che inizia alle otto di sera. La fruizione dell’intrattenimento sta cambiando rapidamente, si gioca tutto sui tablet, sui computer. È uno scenario emozionante, sono cusioso di vedere come finirà”.

A proposito: che rapporto ha con il tempo che passa?
“Tutto va avanti in modo troppo veloce. Io sono ancora in grado di vidimare un biglietto della metropolitana ma mia madre già non lo è più, e fra un mese probabilmente non sarò più capace neanche io. Ma non vorrei essere giovane. Il mondo è afflitto da una crisi globale, non ci sono prospettive, la parola “futuro” non ha più grande significato. Un brutto affare, essere giovani oggi”.

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