Marcello Foa: “Riusciremo a contrastare Netflix solo se accentueremo la nostra italianità”

È chiarissimo il presidente della Rai Marcello Foa, provocato al Festival della tv di Dogliani dalle domande del direttore della Stampa Maurizio Molinari: «Ho stima e rispetto per La7, ha un taglio molto particolare, una sua fisionomia: da qui a definirla servizio pubblico però ce ne corre». E cioè La7 svolge un ottimo lavoro di informazione, ma l’emittente non può essere assolutamente assimilabile al servizio pubblico e non potrebbe mai condividere il canone con la Rai. La polemica è una sorta di tormentone: in certi periodi, dopo l’estate, a esempio, ma pure nel dipanarsi quotidiano dei palinsesti, c’è sempre, sotto traccia ma neanche tanto, questa sorta di rivendicazione da parte della rete di Urbano Cairo. Molti programmi di attualità, molti programmi di news, uguale servizio pubblico. Quindi ci starebbe pure l’idea del canone. «E invece no – rivendica Foa – pensiamo all’informazione regionale, che è una formidabile forza Rai, una realtà giornalistica eccellente, con indici di ascolto molto alti che richiede in ogni regione redazioni numerose. Solo noi ce le possiamo permettere: nessuna emittente privata potrebbe affrontare i costi di una simile copertura informativa, che invece è propria del servizio pubblico».

Un altro punto importante, ha toccato il presidente: «Il giornalismo è anche approfondimento. Io sono un po’ stupito che, in un Paese cattolico come il nostro, la voce cattolica abbia un livello di rappresentazione che non rispecchia l’identità culturale del Paese. Ecco, credo che il mondo giornalistico Rai debba diventare maggiormente pluralista». E articola il concetto anche con un richiamo a «Don Matteo», la fiction di molto successo con Terence Hill: «In questo sceneggiato la parte cattolica del nostro paese si sente rappresentata. E i numeri lo dimostrano».

Questi due punti, solo la Rai è servizio pubblico, solo la Rai ha diritto al canone, e maggiore rappresentanza al mondo cattolico nella tv di Stato, sono i più significativi in una narrazione che il presidente dedica alla «Rai del cambiamento», una sorta di figura retorica più volte evocata. A questo cambiamento si ascrive pure, secondo Foa, la necessità di abbassare la tendenza ad esternalizzare le produzioni. Nonostante la famosa «prima industria culturale italiana», abbia tredicimila dipendenti. «Si è andati oltre il limite del necessario. E’ necessario riportare all’interno dell’azienda molte delle produzioni, proprio per valorizzare le risorse di chi vive dentro la Rai».

E Netflix? « Riusciremo a contrastare Netflix solo se accentueremo la nostra italianità». E se Matteo Salvini, in un comizio in provincia di Latina, dice «sono contento di essere qui invece che in diretta da Fabio Fazio, uno dei classici comunisti col Rolex e milioni di stipendio» (Fazio ha risposto così: «Mi dispiace l’assenza di Salvini perché, al di là della sua opinione su di me, che non mi permetto in questa sede di discutere, sarebbe stato invece interessante consentire al pubblico di Che tempo che fa di poter ascoltare le sue opinioni»), anche Marcello Foa cita il mantra del compenso di Fabio Fazio: «Molto elevato, al di sopra di qualunque valutazione sugli ascolti. Nella Rai del cambiamento, rispettosa del canone pubblico, è chiaro che, per quanto vincolato da un contratto che l’azienda naturalmente deve rispettare, si pone un problema di opportunità». E poi, ancora a proposito di informazione locale: dopo le dimissioni del caporedattore del Tgr Emilia Romagna per il servizio su Predappio e Mussolini, Foa ha aggiunto: «C’è stato un eccesso di copertura, troppo spazio, una sproporzione».

Alessandra Comazzi, La Stampa

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