Oscar 2020, delle donne, del #Metoo, delle quote rosa e di una curiosa idea per i titoli di testa

A pochi giorni dalla notte più importante dell’anno cinematografico una riflessione sul ruolo femminile nel mondo del cinema al di là delle classifiche

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Nell’avvicinamento agli Oscar per il 2019, che saranno assegnati domenica 9 febbraio 2020, si parla molto di un’assenza: quella di Greta Gerwig. Attrice californiana, 36 anni, nel 2017 è stata candidata all’Oscar come miglior regista per Lady Bird. Nel 2019 ha firmato – come regista e sceneggiatrice – uno dei film più attesi dell’anno, Piccole donne. Il film ha 6 candidature (inclusa quella come miglior film) ma non quella per la regia. Greta è stata esclusa. I cinque candidati al premio come miglior regista sono tutti uomini (Sam Mendes, Tood Phillips, Martin Scorsese, Quentin Tarantino e, sorpresa, il coreano Bong Joon-Ho) ed è partita la polemica.

Siamo sinceri: in tempi di MeToo, pensavamo in molti che Piccole donne fosse il film giusto al momento giusto. E che avrebbe sbancato gli Oscar. Potrebbe ancora farlo, ma la sua regista non vincerà (mentre è in lizza come sceneggiatrice). E nel frattempo, come si diceva, fioccano le proteste. Mentre Venezia annuncia una presidente di giuria donna (Cate Blanchett, che per altro ha ricoperto lo stesso ruolo a Cannes nel 2018…), l’Oscar di quest’anno è meno “femminile” e meno “black” di quello dell’anno scorso; e si sa già che Kathryn Bigelow rimarrà, anche quest’anno, l’unica donna ad aver trionfato nella categoria dei/delle registi/registe. Per altro con un film, The Hurt Locker, che nella storia dell’Oscar è il vincitore con la più bassa percentuale di personaggi femminili: ce n’era uno solo, la moglie del protagonista, che stava sullo schermo per pochi secondi. E tutto questo dopo che l’Academy, negli ultimi due-tre anni, ha molto ampliato il parco votanti invitando nuovi membri in larga parte donne, o afro-americani, o entrambe le cose.


Di fronte a questo indubbio paradosso, ognuno reagisce a modo suo. E va registrata la presa di posizione di Alma Har’el, la regista israeliana di Honey Boy, che ha lanciato una proposta forse provocatoria, ma che molti stanno prendendo sul serio: raddoppiare la categoria dei registi come accade (da sempre, da quando l’Oscar è nato nel 1929) per attrici e attori. Miglior regista uomo, miglior regista donna: cinque di qua, cinque di là. Che ne pensate? Sarebbe fin troppo facile ribattere: e allora perché non fare la stessa cosa per produttori e produttrici, costumiste e costumisti, scrittrici e scrittori, montatori e montatrici (in quest’ultima categoria ci sarebbero delle sorprese, visto che il montaggio è da sempre un lavoro molto femminile e le montatrici hanno cominciato a vincere nel 1941: Anne Bauchens, per Giubbe rosse)? Insomma, fare come alle Olimpiadi, dove gare femminili e gare maschili sono separate.

Beh, proprio a proposito di Olimpiadi, vorremmo raccontarvi una storia.
Nel 1992 eravamo inviati alle Olimpiadi di Barcellona e il 28 luglio andammo a seguire la gara di tiro al piattello, perché l’italiano Bruno Rossetti era il favorito per la medaglia d’oro. Rossetti vinse solo il bronzo e la gara ebbe un vincitore del tutto inaspettato… perché non era un vincitore, ma una vincitrice! Si impose la cinese Zhang Shan, con una mirabolante serie di 200 piattelli su 200 nelle eliminatorie e 23 su 25 in finale (record olimpico, per inciso). L’immagine di Rossetti e del cileno Juan Jorge Giha (medaglia d’argento), due omaccioni che portavano in trionfo una cinesina grossa la metà di loro, rimane uno dei ricordi più belli di quella Olimpiade. E proprio Rossetti ci spiegò che il tiro a volo è uno sport fatto di concentrazione, colpo d’occhio e capacità di rilassarsi, e che non c’era proprio nulla di strano nel fatto che una donna battesse gli uomini, anzi! E questo era potuto succedere perché il tiro era uno dei pochissimi sport olimpici in cui uomini e donne gareggiavano insieme.

Bella storia, vero? Ma sapete che successe, dopo? Che la federazione internazionale di tiro e il Cio, di comune accordo, decisero di raddoppiare la gara, proprio come si vorrebbe fare ora con l’Oscar. Gli uomini di qua, le donne di là: così le donne avrebbero avuto le proprie medaglie garantite… e gli uomini non avrebbero più rischiato di fare la fine di Giha e Rossetti, impallinati da una novella Calamity Jane. Questo per dire che a volte, quando un’istituzione “maschile” sembra darti un’opportunità, in realtà ti sta solo ghettizzando.

Non sappiamo se l’Academy accoglierà la proposta di Alma Har’el e farà come il Cio con il tiro al piattello. Sappiamo, avendo visto Piccole donne, che il film di Greta Gerwig non è forse il casus belli più opportuno che le donne possano trovare per sostenere le proprie giuste battaglie. Certo non è brutto ma neanche bellissimo, è un film – se ci passate il termine – “normale”, che non aggiunge molto alle precedenti trasposizioni del celebre romanzo; e soprattutto è il classico film “femminile” che, se avesse vinto o se vincesse, l’avrebbe fatto o lo farà più per motivi legati alla temperie culturale e mediatica del MeToo, che per valori intrinsechi.

Noi abbiamo una modesta proposta – molto diversa da quella di Jonathan Swift relativa ai bambini irlandesi – che renderebbe molta più giustizia alle tantissime donne di talento che lavorano nel cinema, e aiuterebbe a capire sia il loro contributo, sia la giusta richiesta di allargarlo. Secondo noi c’è qualcosa di profondamente ingiusto nel limitare il discorso alle registe. C’è un malinteso di fondo legato all’antica politique des auteurs, che era culturalmente doverosa negli anni ’50 quando i Cahiers du Cinéma la lanciarono, ma ha fatto nei decenni più danni della grandine. Mentre si tenta di scalfire un potere (quello degli uomini) se ne rinfocola in realtà un altro, quello dei registi (e delle registe). Un film è fatto di molti contributi, tutti importanti. E le donne stanno conquistando con fatica, e con bravura, posizioni sempre più importanti in professioni quali la produzione, la scrittura, il montaggio, il marketing, la promozione che finiscono sempre all’ombra del/della regista demiurgo/demiurga. Sono invece tanti, e altri, i settori dove bisogna crescere. Lo vediamo anche al Centro Sperimentale di Cinematografia, la principale scuola di cinema italiana, dove in questo momento studiano 231 persone delle quali 106 sono donne: non siamo ancora alla metà, ma ci si arriverà. La cosa più interessante è che ci sono donne in tutti i corsi (compreso il mestiere storicamente più “maschilista” del cinema, la fotografia): e sono la maggioranza nei corsi di costume (prevedibile), di scenografia (idem), di sceneggiatura (interessante…) e di produzione (molto interessante).

La nostra modesta proposta è che da qui in poi ogni film dichiari nei titoli di testa, subito dopo il titolo, la quantità di donne e di uomini che ci hanno lavorato. Immaginate: si spengono le luci in sala, si accende lo schermo, appare il titolo (1917, o West Side Story, o Frozen III, metteteci voi il film più atteso del 2020) e poi un’enorme scritta: “In questo film hanno lavorato 374 donne e 462 uomini” (cifre a caso). Servirà anche a far capire agli spettatori che un film non è una robetta dove basta avere un regista e qualche attore, ma un’impresa industriale da far tremare i polsi, che dà lavoro a un sacco di gente. Ed è lì, in questa scritta complessiva, che bisogna puntare alla parità, non nelle quote rosa all’Oscar che servono solo a soddisfare l’ego di registe già affermate. E non, soprattutto, nelle storie raccontate: perché, anche in questi tempi di MeToo, speriamo si possa continuare a dire che il cinema ha raccontato meravigliose storie di donne… scritte e dirette da uomini, dai film di Rossellini con la Bergman a Johnny Guitar, dai drammi di Bergman con le splendide Thulin e Ullmann a La donna che visse due volte di Hitchcock. E speriamo, come è già successo, di vedere in futuro storie altrettanto meravigliose di uomini… scritte e dirette da donne. Non lasciamo l’esclusiva a Kathryn Bigelow!

Repubblica.it

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