Venezia 79, L’immensità tra Penelope Cruz e Raffaella Carrà

Fra rinascita e identità di genere, Il regista Emanuele Crialese firma un toccante racconto autobiografico di formazione ambientato nella Roma degli anni 70 sulle note dei successi musicali italiani dell’epoca. In concorso alla 79a Mostra del Cinema, l’opera arriverà nelle sale cinematografiche dal 15 settembre

Undici anni dopo il film Terraferma, il regista Emanuele Crialese torna in concorso alla Mostra del cinema di Venezia con L’immensità. Si tratta dell’opera più e personale del cineasta italiano, nato biologicamente donna e poi attraverso un lungo processo di transizione diventato un uomo. Sicché le vicende di Adriana, ragazza dodicenne nella Roma degli anni Settanta che vuole essere chiamata Andrea si trasfigura nella cartina di tornasole dell’esperienza complicata e dolorosa di un autore cinematografico nato nell’Italia del 1965, e del suo desiderio di cambiamento e rinascita. Certo, il film è tutt’altro che una mera autobiografa. Si tratta di un viaggio in salsa pop nell’immaginario vintage di un Paese in cui era inimmaginabile poter ipotizzare di mutare genere.

Parafrasando la celebre frase che si presume sia stata pronunciata da Gustave Flaubert a proposito del suo romanzo Madame Bovary: “Adriana c’est moi!”, La giovane protagonista di L’immensità, infatti è una sorta di alter ego di Emanuele Crialese, per stessa ammissione del regista: “È un personaggio ispirato alla mia infanzia, alla mia storia, trasfigurata. Sono nato biologicamente come donna. Non sarò mai come un altro uomo, ma ciò non significa che non ci sia in me quella parte femminile che penso sia anche la parte migliore di me in quanto maschio. Io sono quello che sono e mantengo entrambe le polarità”.

Non a caso, il film inizia con Adriana sul terrazzo di casa, intenta ad aspettare invano un segnale dallo spazio. Una ragazzina con il giubbotto di pelle rosso, una stella da sceriffo sul petto e il dolore di sentirsi aliena a se stessa. Intanto la tv trasmette lo spot dell’Amaro Cora, i “pappagalli” molestano le belle signore per le strade della Città Eterna e la Cinquecento Fiat impazza per le strade dell’Urbe. Nietzsche diceva che in virtù della musica le passioni godono di se stesse. E forse l’unico spazio in cui la protagonista può immaginarsi come vorrebbe è il varietà musicale Milleluci, datato 1973. Nello specifico quell’iconico duetto tra Adriano Celentano e Raffaella Carrà impegnati nella canzone “Prisencolinensinainciusol”. Ma la “Raffa” con la sua contagiosa “jeu de vivre” risulta una sorta di Nume tutelare di tutto il film. Basti pensare alla mitica Rumore, colonna sonora di una frizzante sequenza domestica ambientata in cucina tra piatti e tovaglie.

In L’immensità non alberga nessun rifiuto della polarità femminile. Anzi per dirla con i versi del poeta Laforgue, “sarà la donna a salvare il mondo”. Non a caso Crialese per interpretare la madre di Adriana ha optato per Penelope Cruz. È impossibile non farsi travolgere da questo personaggio che pronuncia battute come “Non mi fanno paura le fantasie dei bambini, ma quelle degli adulti che ancora si credono bambini”. Vittima della violenza domestica da parte di un fedifrago marito, nonché, Padre Padrone, la star spagnola è una delle poche attiche del globo terracqueo che possa sfoggiare il caschetto biondo della Carrà o la cofana cotonata di Patty Pravo senza risultare una sbiadita fotocopia. E l’idea di questo siparietto in bianco e nero dona a L’Immensità una freschezza, una ricchezza frugale necessaria per narrare una vicenda altresì triste e amara. Non a caso, l’opera termina con Adriana in smoking e papillon che canta una hit di Johnny Dorelli, ça va sans dire, in bianco nero, perché come diceva Samuel Fuller, “la vita è a colori ma il bianco e nero è più realistico”. E la realtà per Adriana è quella di percepirsi come Andrea.

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