Il Buongiorno rap di Gigi D’Alessio: “Il pop suona vecchio di 30 anni, io mi rivedo nei rapper”

Si chiama “Buongiorno” il nuovo album di Gigi D’Alessio. Un album nuovo che, però, nasce dalle ceneri e dalla struttura di canzoni che ne hanno segnato la storia musicale. Il cantautore napoletano, infatti, ha chiesto ala scena rap napoletana e non solo (Geolier, Enzo Dong, Rocco Hunt, ma anche J-Ax e Boomdabash) di rileggere con lui alcuni dei suoi più grandi successi.

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Per la generazione che negli anni ’90 spopolava nella musica leggera è un periodo non semplice: “Alcuni dei nostri album suonano come se fossero usciti 30 anni fa, è difficile stare al passo con la musica che cambia” dice Gigi D’Alessio a Fanpage.it durante una lunga chiacchierata per l’uscita del suo “Buongiorno”, un album in cui rivisita alcuni dei suoi successi in chiave rap.

Il cantante napoletano, infatti, ha deciso di rivestire alcune delle sue hit uscite anche oltre 20 anni fa (da “Chiove” ad “Annarè”, passando per “Fotomodelle un po’ povere”, “Comme sì femmena” e “Mezz’ora fa” più l’inedito “Vint’anne fa”), sfruttandone il successo ma soprattutto l’ascendente che ha sulle nuovissime generazioni, soprattutto quelle rap, che non si vergognano del passato, come succedeva anni fa quando si parlava dell’autore di “Annarè”. Lui ci ride sopra, consapevole che spesso la sua musica era un guilty pleasure: “Sapevo di gente che ascoltava la mia musica in auto e poi la cambiava subito appena vedeva arrivare la fidanzata” dice.

Il problema di chi, superati i 40, si confronta con un pubblico nuovo è soprattutto quello di non sembrare fuori contesto e non sono pochi quelli che in questi anni ci sono cascati. Troppi synth o produzioni che li allontanavano dal loro pubblico e in nessun modo erano attraenti per un pubblico giovane. Eppure c’è da confrontarsi con questa cosa e D’Alessio lo sa, ma dalla sua ha il fatto che la platea rap napoletana lo adora e soprattutto, alcuni anche grazie ai genitori, conoscono perfettamente le sue canzoni oltre a essere uniti dal napoletano, e alla sua totale estraneità al concetto di pregiudizio, soprattutto nei confronti dei giovani: “L’ho subìto, so cosa significa, ma soprattutto so che la musica è curiosità” spiega.

E così, assieme a Max D’Ambra e a tantissimi rappresentanti della nuova leva rap napoletana (Geolier, Enzo Dong, CoCo, Mv Killa), di qualcuno meno giovane ma in crescita (come Vale Lambo e Lele Blade) e di qualche veterano (Clementino, Franco Ricciardi, Rocco Hunt) a cui si aggiungono Boomdabash e J-Ax e Shablo, ha scelto di rileggere brani che ne hanno segnato la carriera. Il rischio era quello di cui parlavamo all’inizio, ma il risultato è sorprendente, soprattutto in alcuni casi, perché le parti sostanziali dei brani originali (prime strofe o ritornelli) sono state in qualche modo salvaguardate, in modo da non far sembrare quelle canzoni qualcos’altro, ma la piena libertà data ai rapper ha fatto sì che contenga sorprese continue.

Quando D’Alessio dice che in questi ragazzi si rivede non dice una cosa sbagliata, anzi, a livello testuale ci sono affinità, soprattutto quando si parla di sentimenti, ma anche a livello di contesto oltre che per la propensione alla melodia napoletana: “Molti della mia generazione e del mio genere pop, visto il grande successo di questi ragazzi, li guardano anche un po’ con la puzza sotto al naso, ma sono tutti preconcetti che ho subito io” dice, sottolineando come siano più vicini a lui di quanto sembri, soprattutto se visti con gli occhi di chi non lo capisce. Le canzoni sono state rilette completamente, talvolta mantenendo sonorità più latine, che il cantante ha esplorato anni fa, altre con suoni trap più scuri a cui si aggiungono, appunto, le strofe scritte ad hoc dai suoi ospiti.

Senti, possiamo dire che “Quanto amore si dà”, il pezzo con Guè, è stato l’inizio ufficioso di questo progetto?

Sì, Guè è stato l’inizio, poi ci sono state le collaborazioni con Emis Killa, Luchè…

Motivo per cui Luchè non è anche qui?

Certo, però diciamo che ci saranno altre cose che usciranno. Per me la musica è sempre scoperta, credo che uno non debba rimanere nel proprio orto.

La sfida, però, è riuscire a farlo restando credibili e non è facile. Credo che sia un problema che ti sei posto, no?

Assolutamente, innanzitutto sono rimasto quello che sono, ho rivisitato queste canzoni che inevitabilmente avevano sonorità di 20-25 anni fa, ho lasciato spazio ai ragazzi dell’iphone, come li chiamo io. E ho avuto modo di scoprire il loro talento, la cosa più difficile era non sfregiare le canzoni e credo di esserci riuscito. Non sono state stravolte a tal punto da essere diventate altre canzoni.

Ma tu a questa generazione come ci sei arrivato a parte la curiosità?

Questa è una generazione che mi conosceva anche grazie ai propri genitori, tanto che quando venivano a cantare in sala erano emozionati e alla fine chiamavano la famiglia per dirglielo, c’era un entusiasmo enorme. Poi queste sono canzoni senza tempo, sembrano scritte oggi e questo è motivo di orgoglio, anche perché durano da 30 anni e ancora oggi ovunque vada a cantarle – dall’Italia all’America – faccio un medley alla fine del concerto, ed è sempre il momento più up.

Quindi come nasce il progetto?

È stata una cosa organizzata in maniera spontanea, mi sono detto che dovevo tentare questo esperimento. Sono un curioso di natura e poi ho sempre abbattuto tutti i pregiudizi, perché sono il primo ad averli subiti e so bene cosa significa. È per questo che mi piacerebbe che questi ragazzi venissero sdoganati al grande pubblico. Anche perché devo dirti che hanno dato un contributo prezioso, mantenendo grande rispetto di quello che avevo scritto, dei brani e della loro storicità.

Ma li hanno scelti loro i brani da cantare?

No, si sono assegnati automaticamente, cioè io ho detto “Per me ‘Comme sì femmena’ la deve fare Geolier”, poi è successo che a volte hanno cambiato, per esempio “Como suena el corazon” doveva farla Valerio (Vale Lambo, ndr) e un’altra doveva farla Clementino, poi se le sono scambiate dopo essersi parlati. La cosa bella è che ho creato una comunità, un’unione che ai tempi del fenomeno dei neomelodici non c’è stata. Vedere questi ragazzi felici è stupendo, ci siamo divertiti, si sono divertiti, mi hanno portato tanta gioia in casa e poi devo dirti la verità, a me queste canzoni piacciono assai.

Tu non hai messo bocca nelle loro barre?

Hanno avuto libertà totale, perché è un po’ come quando l’architetto a fare casa e poi cominci a dire di volere questo, questo, alla fine quello ti dice: “Fattelo tu”. Io al massimo sottolineavo quando ci voleva una botta di emotività – spesso nelle seconde strofe -, perché di solito in una canzone dici tutto nella prima strofa, nell’inciso. Ho fatto solo qualche taglio, perché una volta le canzono erano lunghissime, oggi è diverso. Però non ho mai tagliato cose fondamentali, al massimo se un ritornello si ripeteva uguale due volte, la prima volta ne abbiamo messo solo metà. È stato più un lavoro di struttura del brano, però è venuto fuori in maniera naturale.

Le produzioni sono tutte tue?

Sì, le ho fatte assieme a Max D’Ambra, tranne il beat di “Annarè “che è stato fatto da Shablo. C’è stata una collaborazione totale, sia tra i ragazzi che tra loro e me. Avevamo le idee ben chiare, però quando senti il brano finito capisci se bisogna aggiustare qualcosa, ma è il normale lavoro che si fa anche sui brani editi.

È un album molto napoletano, che è anche la cosa che in qualche modo ciò che ti ha permesso di arrivare al grande pubblico.

Certo, è anche grazie a queste canzoni che ho fatto il mio primo Stadio San Paolo, è stata la potenza di queste canzoni a permettermi di fare il Festival di Sanremo tra i Big la prima volta, nel 2000.

Trovi una sorta di comunanza tra quel mondo neomelodico di 20 anni fa e questo rap di oggi?

Assolutamente, questo rap è la forza del paese: i ragazzi, autonomamente, hanno sdoganato questa parte di lingua napoletana. Anche quando Lele dice “Aggio deciso ‘e me fà strada cu’ ‘o dialetto e mo a tavola cu’ ‘e gruoss’ pure Napoli s’assetta” (“Ho deciso di farmi strada col dialetto e adesso a tavola, con i grandi, si siede anche Napoli”), dà l’idea di quel senso di rivincita di noi napoletani. L’album l’ho chiamato “Buongiorno” perché abbiamo bisogno di dire ‘buongiorno’ a tutti, soprattutto dopo tutto quello che abbiamo passato in questi mesi.

Non è un caso che il tuo buongiorno coinvolga la maggior parte dei feat del progetto, e nasce, originariamente, come un pezzo legato alla Napoli di quando fu scritta.

Era la fotografia di quella città, ma questa volta ho chiesto ai ragazzi di dare il loro buongiorno a chiunque volessero loro: agli amici, ai nemici, alla città, alla fidanzata, alla nonna, e ognuno ha dato il proprio contributo. Penso che “Buongiorno” possa diventare un inno per la città, spero che la canteranno ogni volta che segna il Napoli.

Mi incuriosisce molto anche il rapporto con la nuova generazione, non ti è mai capitato di guardarli e sentirtene lontano?

No, no, io in loro rivedo me, al di là del suono della batteria – per entrare nella parte tecnica – il concetto è che sono ragazzi nati nei quartieri popolari e scrivono quello che vedono. Molti della mia generazione e del mio genere, il pop, visto il grande successo che hanno questi ragazzi li guardano anche un po’ con la puzza sotto al naso: sono tutti preconcetti che ho subito anche io, dal 92, quando cominciai a cantare, al mio primo Stadio (mi prendevano in giro dicendomi “Vabbè, portati il pantaloncino con le scarpette”), quando sono arrivato a Sanremo, trattandomi come se fossi un alieno. Poi dopo 20 anni riporti “Non dirgli mai” su quel palco, ricevi la standing ovation e oggi alcuni insegnanti di piano fanno suonare questa canzone per superare l’esame di trattato d’armonia.

Ti sei purificato da quel pregiudizio subendolo, insomma.

Guarda, è stata anche un po’ la mia forza, il fatto di essere attaccato mi ha dato modo di non mollare mai. È motivo di grande soddisfazione vedere tanto pubblico ai miei concerti che praticamente non mi fa cantare: sono canzoni che durano da tanti anni e la gente me le chiede sempre, non ho fatto altro che rivisitarle portandole nei 2000. Credo tanto in questo progetto perché è un progetto collettivo: questo non è un disco di Gigi D’Alessio, sono le canzoni di Gigi D’Alessio fatte da me con tutti gli artisti che hanno collaborato.

E la copertina ne è un esempio, praticamente niente primo piano tuo, ma una visione collettiva.

Sì, è un atto di coraggio e il trono è stata chiaramente una provocazione.

Tanti anni fa ascoltare Gigi D’Alessio era un guilty pleasure, al massimo, poi è successo qualcosa, sei stato sdoganato e i giovani rapper ne sono un esempio. Quale è stato il momento di svolta?

Onestamente non so cosa sia successo nella testa delle persone, forse sono stati quelli che mi ascoltavano che hanno fatto un’operazione di convincimento. Guarda, a me tutta la vita è successo di incontrare persone a cui stavo antipatico e dopo cinque minuti che mi hanno conosciuto tenevano la mia fascia in testa. Il problema è che il pregiudizio ammazza tutti, io penso che si possano anche commettere degli errori, musicalmente parlando… io non so se ne ho commessi, ma se l’ho fatto, l’ho fatto in buona fede. Per quanto riguarda la musica, poi, non esiste il dono della verità, perché nella musica non esiste la verità, è solo una questione di gusto. Quest’anno sono 28 anni di carriera, e quando duri tutti questi anni, non sei più una cosa così, 28 anni sono 28 anni, di tournée, vendite di dischi, di soddisfazioni, di tv.

È vero che questo è il momento più duro, musicalmente parlando, per la tua generazione?

Musicalmente parlando sì, perché sta cambiando qualcosa: tu fai un album pop normale e sembra un disco di 30 anni fa. Succede anche a me, se penso al mio album precedente. Questo nuovo è il primo album in cui non ho usato musicisti e chi conosce la mia discografia sa che ci hanno suonato i più grandi musicisti al mondo. Eppure se ascolto un pezzo fatto 8 mesi fa sembra una canzone più vecchia, perché c’è stata questa invadenza di questi suoni… Però ripeto, se togliamo batteria, i beat – la mia generazione dice il groove – se togliamo tutto, comunque sotto c’è una canzone.

Questo ti può creare problemi per il futuro?

Assolutamente no, perché la mia fortuna è che a differenza di molti produttori io suono, senza bisogno del computer. Conoscere la musica è un vantaggio perché affiancandomi con la nuova generazione di produttori formiamo un connubio perfetto. Poi, beh, alla fine è sempre il pubblico a decidere.

È un disco particolare anche perché è un battesimo pure per tuo figlio Luca, no?

Sì, so di essere una vetrina per artisti molto famosi, famosi e meno famosi; a mio figlio piace fare musica, gli ho detto di non pensare mai di usare me per ottenere favori, perché deve sbattere la testa contro il muro altrimenti non vale, oltre a essere ingiusto nei confronti di chi non è figlio di. In questo progetto però mi sembrava giusto inserirlo: la sua parte l’ha scritta completamente lui, quando ha scritto e registrato io sono andato via per evitare soggezione. Un giorno mi ha chiesto se fossi sicuro che poteva stare nell’album: “Sicuro che non sono troppo piccolo per stare in questo lavoro?” e gli ho risposto che non ha importanza l’età o il successo e secondo me ci stava bene, nel disco non è mio figlio, è semplicemente LDA, un feat come gli altri.

Non si può non notare che sia tu che Anna avete svoltato verso quelle sonorità praticamente nello stesso periodo, come mai?

L’idea per quest’album è nata un anno fa, quando ero a The Voice, anche grazie a Guè e Sfera, però sono sempre stato un curioso, la musica per me è un incontro, poi ovviamente in casa uno ne parla, è inevitabile.

Non ti piace il termine “svolta” quando si parla della tua carriera, vero?

Non credo che la mia sia una svolta verso qualcosa, c’è solo una crescita che è quella di stare al passo coi tempi. È come avere un negozio di abbigliamento, non puoi tenere le cose solo vecchie, devi capire che cambia la moda, l’importante è non seguire solo quella, ma dare la qualità e queste canzoni quel bollino di qualità ce l’hanno già perché l’ha stabilito il tempo. Io non ho fatto altro che prendere queste canzoni, andare dal sarto e dire: “Siccome erano altri tempi quando abbiamo fatto questi vestiti e oggi si porta un outfit diverso, fai degli aggiusti?”. Poi magari si ritornerà a fare i dischi suonati, ma la regola della musica è che non ci sono regole, sono quelli con la puzza sotto al naso che vogliono metterle. Le regole non ci sono e te lo dice uno che la musica l’ha studiata.

C’è un confronto con l’ispirazione o con l’eventuale mancanza dell’ispirazione? Sai, la sindrome del foglio bianco…

Non mi è mai successo, perché non è che mi sveglio e dico: “Oggi voglio scrivere una canzone”, sento di dover scrivere una canzone e dover dire delle cose. “Vint’anne fa”, unico inedito del disco, è nato per caso: stavamo in sala, Lele (Blade, ndr) doveva rileggere “Sotto le lenzuola” e doveva fare la strofa. Quando ho sentito la strofa meravigliosa che aveva creato gli ho detto: “Aspetta, ne facciamo un’altra per ‘Sotto le lenzuola’, ora andiamo al pianoforte” e lì ho scritto l’inedito. Ti assicuro che è uscita in mezz’ora, ero ispirato, m’era arrivata.

Avevi qualche appunto, qualcosa?

No, niente, sono partito dalla strofa di Lele e la prima parola che mi è venuta è “Vint’anne fa” e questo deve essere l’inciso e ho fatto (canta, ndr) “Vint’anne fa na na na na na na”, perché faccio così, alla fine è uscita in maniera naturale.

Come pensi di portare live quest’album?

Il mio progetto è fare lo Stadio San Paolo a Napoli con tutti, per cominciare. Stiamo lavorando per farlo il prossimo maggio, aspettando le disponibilità, ci saremo tutti; poi, come proseguirà, ad oggi non te lo so dire, dipende da come andrà il disco, se si potranno fare concerti, ma quello che voglio fare è il San Paolo, una festa per la mia città con tutti quanti. Ovviamente ci sarà questo disco per intero e il mio repertorio, con altrettanti ospiti.

E visto che ti muoverai tra pezzi che hanno bisogno della band e altri che non ne hanno bisogno, come sarà il set?

Farò il mio concerto con la band, poi a un certo punto cambierà lo scenario, ci sarà il buongiorno, appunto, presentando l’album: probabilmente andrà via la band, lasciamo il pianoforte, entra un dj o magari terrò il chitarrista, non lo so ancora, ma sicuramente dovrà cambiare il set.

Sarà interessante vedere in che modo si uniranno i pubblici, quello tuo, storico, e quello rap…

Io credo che sarà un bel matrimonio, almeno lo spero e ci credo. Non ti nascondo che ho fatto qualche sondaggio tra i ragazzi e tra il mio pubblico e sono impazziti, nessuno mi ha detto “Ma che stai facendo!”.  Non provavo un entusiasmo del genere intorno a me, proprio nella costruzione del progetto, da un bel po’.

L’ennesimo cambiamento di D’Alessio, quindi?

Sì, sempre crescita, curiosità, scoperta, perché nella musica non c’è un punto di arrivo.

Usciamo dall’album per l’ultima domanda: duetti coi nuovi rapper e contemporaneamente sei diventato un’altra volta nonno…

Un nonno rapper (ride, ndr). Sono diventato nonno molto giovane, mi sono sposato giovane, a 18 anni, e mio figlio ha seguito le mie orme. Sono felicissimo perché i bambini sono sempre un sorriso di Dio, lei è una bambina magnifica, si chiama Sofia e la cresceremo con le mie varie anime musicali.

Francesco Raiola, Music.fanpage.it

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