“L’uomo perde sempre se la sua avversaria è una macchina violenta”

Diventa una mostra la sceneggiatura visiva del regista per il film «Red Cars» mai realizzato

David Cronenberg, che manipolatore. Siamo al Mac di Lissone, Brianza piena. La Ferrari, che ancora esulta per la vittoria di domenica scorsa e celebra i 90 anni della scuderia, si prepara per il Gran Premio di Monza: c’è profumo di epica, ma Cronenberg, si sa, preferisce modellare incubi.E qui, nelle sale del Museo di Arte Contemporanea, il 76enne regista canadese (La Mosca, Spider, La zona morta, A History of violence, A dangerous method, Cosmopolis, Maps of the stars e, su tutti, Crash: quanti ne avete (ri)visti?) inaugura, voce flautata e sorriso elegante, «Red Cars» (da oggi al 24 novembre, ingresso libero), una mostra curata da Domenico De Gaetano. Alle pareti duecento immagini tratte dal libro d’artista concepito da Cronenberg nel 2005 per Volumina – che, insieme a Clarart, organizza la mostra – dove vecchie fotografie dell’Archivio Ferrari, manifesti, ritratti, spaccati di motori e modelli di auto di F1 si susseguono uno dopo l’altro, ritoccati ad arte dal regista su piccole teche. Compongono una sceneggiatura visiva inframezzata da brevi testi – quasi tutti dialoghi – che avrebbe potuto tramutarsi in celluloide, negli anni successivi a Crash.Dopo aver raccontato di lamiere e corpi contorti (porno-horror nichilista e maschilista: oggi sarebbe derubricato così, ma a Cannes nel ’96 il film vinse il Premio della giuria), Cronenberg avrebbe voluto plasmare la sua favola nera sulla competizione tra Phil Hill, americano nevrotico che legge Sartre per allentare la tensione della pista, e il compagno di scuderia Wolfgang von Trips, amato da Enzo Ferrari. Fu la tv dell’epoca, nel primo incidente mortale trasmesso in mondovisione, a mostrarne l’epilogo: von Trips fuori strada, morto insieme ad altre 14 persone del pubblico, e Hill campione del mondo più infelice della storia. Era il 10 settembre 1961, vittoria tragica per Maranello. Le immagini dello smantellamento, per espresso volere di Enzo Ferrari, della 156 Sharknose «muso da squalo» che tanto dolore portò al Cavallino, sono per Cronenberg il cuore della vicenda e della mostra: «In questa storia vedo due drammi: muore il pilota e muore la macchina. Entrambi smembrati, vede?», mi dice il pioniere del body-horror, di nero vestito, indicando i suoi lavori.

Red Cars, film mai realizzato, trasformato in visionaria sceneggiatura artistica anni fa e, ora, in una mostra, che cosa rappresenta? Una sorta di sequel di Crash?

«Vita, morte e sesso sono gli ingredienti di Crash. In Red Cars c’è altro: i due protagonisti rappresentano due stili di vita, due opposte visioni del mondo: Hill, l’americano rampante, e von Trips, l’aristocratico della tradizione. In mezzo, Enzo Ferrari, self-made man italiano grandioso e dolente, che aveva da poco perso il figlio Dino. Nessuno vince: prevale la violenza dalla meccanica».

Perché non fece il film?

«Avevo tutto pronto, dopo anni di ricerche. Andai a parlarne con Hill: una persona squisita, un antidivo che odia ricevere attenzione mediatica, sconvolto per sempre da quella maledetta corsa del ’61. Mi disse senza troppi giri di parole che era contrario all’idea. Avevo già pensato anche al suo interprete: Mel Gibson».

Ne parlò anche con lui?

«Certo, ma il caso vuole che Gibson sia molto amico di Hill. Non se la sentì di dirmi di sì. Avevo pronta l’alternativa: Brad Pitt».

E come andò?

«Pitt si stava preparando per Seven, era lanciatissimo, e non amava i motori. Mi arresi».

Possibile?

«Le svelo un segreto: il Gran Premio, al cinema, non funziona. I produttori lo sanno e ne stanno alla larga. Questo circo di milioni di dollari di sponsor e con fan in mezzo mondo spaventa il pubblico in sala: quanti film di successo conosce dedicati all’automobilismo? Io sentivo però che qualcosa andava fatto: avevo tra le mani un ibrido tutto da plasmare».

Cioè?

«C’è una storia vera, con persone ancora in vita, e un mito tragico e universale, quello della vittoria mutilata dalla morte, per colpa della tecnica, che poi è la mia ossessione: dovevo creare qualcosa di nuovo. Ne è uscito un film senza attori, senza set, senza musiche, senza suoni».

E come lo definisce?

«Un mutante: è stato concepito come un libro d’arte con testi, dialoghi e immagini rielaborate in mie visioni. Ora è diventato una mostra e lo si può leggere più facilmente guardando i capitoli della storia, soffermandosi su ogni immagine il tempo che si vuole, non come accade al cinema».

Nei prossimi giorni andrà a vedere le prove e la gara del Gran Premio di Monza ma domani (oggi per chi legge, ndr) è atteso a Venezia: l’anno scorso ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, questa volta sarà proiettata la versione restaurata di Crash…

«GP e Crash: strana coincidenza vero? Sono curioso di vedere, a così tanti anni di distanza, la reazione del pubblico al film. Oggi il cinema sta diventando così tremendamente politically correct: se ci mettiamo a bilanciare il numero di battute pronunciate da un attore e da un’attrice o a contare i nudi smettiamo di girare e facciamo altro. Chiamiamolo intrattenimento o ornamento: va bene, ma l’arte è un’altra cosa. L’arte è un crimine. Deve disturbare, essere sovversiva. Pretendere di controllarla è fascismo».

La tv è libera?

«Di sicuro più del cinema e Netflix è il futuro. Ho presentato loro un paio di idee, non sono andate in porto, ma ne ho in mente altre. Sono un consumatore seriale… di serie tv».

Anche lei fan di Stranger Things?

«Mai visto, credo. In realtà guardo così tante serie che a volte non ne ricordo i titoli. Una però mi è rimasta impressa: Babylon Berlin, un noir ambientato nella Repubblica di Weimar, produzione tedesca».

In Videodrome aveva profetizzato l’allucinazione contemporanea per il digitale. Lei non è sui social, ma sua figlia Caitlin, fotografa, sì e ogni tanto posta i ritratti che le fa, accompagnati a dediche affettuose. Contento?

«No, ma lei è figlia del suo tempo e può fare ciò che vuole. Io ho scelto la via dell’assenza: niente Facebook, Twitter, Instagram. Non voglio trovarmi nelle condizioni di dover giustificare ciò che penso, scrivo o fotografo. Preferisco nutrire il mistero».

Francesca Amé, ilgiornale.it

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