ALESSANDRO BORGHI: CAMALEONTE DEL CINEMA

I mille volti di Alessandro Borghi: «Assassino o bravo ragazzo non resto ingabbiato in un solo ruolo»

Alessandro BorghiDa qualche settimana lo si vede in giro con una zazzera biondo platino. Non si sa mai cosa aspettarsi, d’altronde, da Alessandro Borghi. Capelli rasati fin sopra le orecchie; cranio lucido con nuca e cranio tatuati e barba curatissima; chioma fino a mezza schiena e riga in mezzo; giacca, cravatta e ciuffo e basette, per citare solo le metamorfosi degli ultimi due anni. Unica costante, gli occhi azzurrissimi. Camaleontico come pochi, l’attore romano, 30 anni, si è fatto notare con Non essere cattivo, ultimo film di Claudio Caligari e Suburra di Stefano Sollima.
Tra pochi giorni al Festival di Berlino sarà tra i talenti europei della ventesima edizione degli Shootings Stars, la piattaforma che ha lanciato nomi come Daniel Craig e Rachel Weisz. La giuria parla di «carisma sbalorditivo» nella motivazione della scelta. «Beh, sono lusingato. È la prova che noi italiani dobbiamo smetterla di pensare di non avere chance. Si vive una bella globalizzazione delle cinematografie, noi ne siamo parte: è ora di abbattere le barriere».
Una storia tutta speciale, quella di Alessandro. Cresciuto tra Garbatella e la Magliana, mescolando amici, esperienze e lavori («cameriere, muratore, commesso, guardiano notturno, stuntman», elenca), gli esami di Economia per diventare commercialista, la passione per la boxe. «L’università l’ho lasciata dopo che, uscendo dalla palestra, mi sono ritrovato con un invito a un provino per Distretto di polizia». Tantissima gavetta in tv, collezionando ogni ruolo e il suo contrario — il poliziotto e il bandito, il bravo ragazzo e l’assassino, l’arrivista e l’insicuro. «Non ho frequentato scuole di recitazione, è stato un ottimo training». Utile, confessa, anche a decidere cosa fare. O, meglio, non fare. «Se tornavo a casa e non ero felice significava che era meglio cambiare. Volevo evitare le etichette».
Oggi si gode i frutti di quelle scelte. E degli incontri che gli hanno cambiato la vita. «La svolta è arrivata quando Sollima mi ha voluto per il Numero 8 di Suburra: quel ruolo equivale alla parola inizio». Il regista l’aveva scelto già ai tempi della serie Romanzo criminale, dove ebbe un piccolo ruolo di pugile. «Grazie a Stefano ho capito che volevo veramente recitare». Grazie al Vittorio di Non essere cattivo, dice, ha scoperto che poteva farlo a modo suo: con il cuore in mano. «Quel film vuol dire amore allo stato puro: per il cinema, per Caligari, per ciò che mi ha portato, per il legame con Valerio Mastandrea. E con Luca Marinelli che ormai è come fosse un mio parente».
Quindi è arrivato Il più grande sogno di Michele Vannucci dove è Boccione. «Qui la parola chiave è amicizia. Da quella tra me e Michele e Mirko Frezza è nato un film che dimostra che se ci si crede, poi le cose accadono sul serio». In Dalida di Liza Azuelos lo vedremo interpretare Luigi Tenco, con tanto di esibizione all’Ariston. «La mia prima vera esperienza internazionale. Peccato solo il film fosse su Dalida e non su Tenco. Ci avevo preso gusto…». Fondamentale, racconta, anche l’incontro con Sergio Castellitto: in Fortunata fa Chicano, l’amico bipolare di Jasmine Trinca. «Con lei siamo diventati amici davvero. Sergio mi ha fatto entrare nel mondo onirico suo e di Margaret e mi ha insegnato a mettere tecnica nel mio modo di recitare tutto di pancia». Ora è impegnato con la serie Suburra, targata Netflix. «Ritrovare Numero 8 è bello, riprendere in mano un personaggio ti permette di dare nuove sfaccettature».
Anche il mondo della moda lo corteggia. «Mi diverte fare il modello, è un gioco in un mondo lontano dal mio. Non capisco i miei colleghi che si dissociano, come se sfilare o fare un servizio fotografico significasse che non puoi fare film seri». L’ha detto, le definizioni non gli piacciono. A parte una che si dà da solo. «Sono un nostalgico, con le persone e con i film. Per esempio, Non essere cattivo lo devo vedere almeno una volta al mese. È come rivivere un pezzo della mia vita di cui sento già la mancanza».

Stefania Ulivi, il Corriere della Sera

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