“Caparezza va in pausa, io torno a essere Michele. Da pessimista reattivo cerco sempre il meglio”

Dopo il successo di “Prisoner 709” è uscito un “live” con un documentario. “L’acufene mi ha messo in discussione”

Fortuna che c’è Caparezza. Forse viene da un altro mondo. Oppure sta così bene nel proprio che esce soltanto quando ha qualcosa di nuovo da dire: «Pubblico qualcosa se per me ha un senso, altrimenti niente».In poche parole, è un caso isolato, e ce ne fossero. Ha appena terminato un anno favoloso, doppio disco di platino con il disco Prisoner 709 e tour tutto esaurito a bordo di canzoni non proprio di facile beva, spesso complesse o ispide e comunque arricciate su testi visionari, acuti e pungenti quanto basta. E lo ha celebrato con l’uscita di Prisoner 709 Live che contiene un dvd documentario, il disco originale e un cd con le canzoni di Prisoner dal vivo, il tutto in tre versioni diverse (una delle quali contiene anche un libro fotografico). «Ora però basta».

Scusi Caparezza?

«Per un po’ torno a essere 7 e non più 9».

Prego?

«Sette come le lettere del mio nome, Michele (il cognome è Salvemini – ndr). Nove sono le lettere di Caparezza. Tornerò quando avrò qualcosa di nuovo da dire».

Siamo nell’epoca del sempre presenti altrimenti si corre il rischio di sparire.

«Ho iniziato comprando i 45 giri, ad esempio The robots dei Kraftwerk, e anche oggi i giovanissimi si innamorano spesso dei singoli brani. Il problema è che, in genere, ne sono super tifosi per una settimana e poi basta. Io invece sono più meticoloso. Ad esempio, se compro un quotidiano, lo leggo tutto. Oggi il vero problema è di dare valore alle cose, il valore giusto».

Lo streaming spesso dà l’idea che tutto sia impalpabile e volatile.

«Vivo in pace l’epoca di Spotify, ma ho avuto un’altra educazione, quando ascolto, ascolto fino in fondo. In ogni caso lo streaming è una finestra sulla contemporaneità».

Anche i social lo sono.

«I social network non sono un reale spaccato sociale, sono più che altro lo specchio della frustrazione».

Molta politica si fa sui social.

«Spesso si arriva alla tifoseria, che io però lascerei solo allo sport. La tifoseria uccide il pensiero libero. In ogni caso, io uso i social ma non ne abuso, mi piace Instagram».

Al pubblico è piaciuta molto la musica di Prisoner 709.

«Pensavo che la gente non lo capisse e qualcuno mi rimproverava di aver fatto un disco troppo complesso».

La sua risposta?

«Penso che un disco non deve piacere, deve esistere. L’idea di fare musica per piacere rischia di portare a incidere musica piaciona».

Il disco è stato il suo urlo pubblico, lo sfogo emotivo dopo essere stato preso di mira dall’acufene, un disturbo dell’udito costituito da fischi, ronzii, fruscii, pulsazioni.

«E continua. E vorrei che le persone entrassero per cinque minuti dentro di me e poi vedere se rimangono ancora lì. Una sofferenza. C’è il rischio che l’udito cali ma cerco di mantenere la normalità. Ad esempio, vado al cinema, anche se è una sofferenza».

Michele come è tornato Caparezza nonostante l’acufene?

«L’acufene ha messo disordine nella mia vita. Prima, io pensavo che tutte le cose della mia vita fossero segnali per la mia missione nella musica. Pensavo insomma di aver trovato la mia missione! L’acufene, con i suoi rumori e i suoi ronzii, ha capovolto tutto. Prima ho reagito in silenzio. Poi ho iniziato a scrivere».

A proposito, Rizzoli ha ripubblicato dopo dieci anni il suo libro Saghe mentali. Rileggerlo oggi ha un altro senso.

«Raccoglie le mie profezie che poi sono anche diventate canzoni come Io diventerò qualcuno nel disco Le dimensioni del mio caos».

Prevedeva i Cinque Stelle.

«Pensavo alla nascita di un partito grazie al web, poi è successo davvero».

Si è immaginato anche Facebook.

«Ma allora c’era solo MySpace».

Era anche una vetrina per musicisti esordienti. Poi sono arrivati i talent.

«Mi dispiace quando penso che i ragazzi possano avere successo velocemente perché molti di loro lo perderanno altrettanto velocemente e non è facile».

È disilluso.

«No, sono un pessimista reattivo: solo pensare il peggio mi porta a dare il meglio».

Paolo Giordano, il Giornale

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