Prodigy: “Ma quale politica, noi suoniamo l’elogio della fuga”

La storica band di musica elettronica torna con un nuovo album, No tourists, e due date in Italia. Ce ne parla il leader Liam Howlett: “La musica dance? È robaccia”

No Irish, no blacks, no dogs, titolava provocatoriamente l’autobiografia John Lydon dei Sex Pistols. No tourists, aggiungono ora i Prodigy, che della band di Lydon sono sempre stati considerati i figli elettronici. Ma non è una provocazione. E neanche un appello in tempi di confini e Brexit. E allora cos’è? “È voglia di fuggire dalla realtà”, spiega Liam Howlett, 47 anni, da sempre mente indiscussa del gruppo inglese che negli anni Novanta ha fatto la storia dei rave e dell’elettronica con brani come Firestarter, Smack my bitch up, Everybody in the place e Charly. E che ora torna con un album intitolato, appunto, No tourists, che presenterà a Livorno il 30 novembre e a Rimini l’1 dicembre. “Il titolo indica la necessità di deragliare dal cammino obbligato, dal modo di vedere le cose dei turisti, perché la gente non ha più voglia di esplorare davvero. Siamo troppo pigri per girare di qua e di là e dare un’occhiata e avventurarci. Abbiamo paura, non vogliamo rischiare mai”.

Non c’entra niente la politica?
“No, la nostra musica è sempre stata elogio della fuga. L’intero progetto Prodigy ha molto di politico, ma non siamo interessati ai politici direttamente. A volte nascoste nella musica ci sono tracce delle nostra idee politiche ma non siamo una band politica, siamo una band edonistica”.

A proposito di fuga e azione: il brano che dà il titolo all’album fa venire in mente James Bond.
“Una decina di anni fa mi chiesero della musica per un film della saga di 007, ma non avevo tempo e alla fine non se ne fece niente. Spero me lo chiedano di nuovo. In realtà a me piacerebbe di più realizzare un’intera colonna sonora. Qualcuno c’ha provato a chiedermelo, ma non era niente che mi interessasse davvero. Ma ora ci sono film dell’orrore che potrebbero ispirarmi per le musiche”.

Come ha fatto Thom Yorke con Guadagnino per Suspiria. C’è qualche regista in particolare con cui vorrebbe lavorare?
“Solo gente sconosciuta, non troppo legata agli studios, come nella musica mi piace collaborare con artisti lontani dalle major, nel nuovo album c’è questa band che si chiama Horror, scritto Ho9909. Il problema del cinema è che devi rispondere alle richieste di così tante persone. E io non potrei mai lavorare così”.

L’album è un omaggio al vostro sound. Ormai i Prodigy suonano solo come i Prodigy. Cosa ha aiutato in questi anni a tenere vivo il vostro sound breakbeat? Generi come la dubstep?
“Diciamo che ha aiutato a tenere viva la musica elettronica in generale. I generi cambiano molto velocemente. Dal breakbeat alla jungle, poi al drum and bass, poi è arrivato la dubstep, e da lì alla trap, alla quale si è ispirato l’ultimo hip hop. Noi però in qualche modo siamo stati sempre in disparte quando arrivavano le novità per osservare e attingere. È stato bello quando è arrivata la dubstep ma dopo due anni era usata per gli spot dello spray per i capelli. E ormai è morta. Invece nel sottobosco musicale elettronico in qualche modo la drum and bass c’è sempre”.

La musica dance è migliore degli altri generi per unire la gente?
“Ma a me non piace la musica dance in assoluto. Non è quello che facciamo noi, magari vi stupirà sentirmelo dire. La musica dance è robaccia. È il linguaggio dell’elettronica ad essere universale. Sono le canzoni, non lo stile a unire le persone. Ma l’Edm, quella musica all’ingrosso, è come il pop. Per me è come andare al supermercato”.

Cosa ascolta nel 2018?
“Un sacco di roba vecchia a dire la verità, roba sperimentale vecchia. Non ascolto molto musica nuova. Alla fine torno sempre alle mie passioni con cui sono cresciuto, la vecchia electro, il vecchio hip hop, sono quelle le radici della band”.

Come è il vostro pubblico oggi?
“È incredibile. Una cosa enorme. Anche in Italia ci sono giovanissimi e gente che ci segue dall’inizio. Il nostro pubblico sa che se viene a un nostro concerto può lasciarsi andare completamente. Abbiamo suonato con i Linkin Park negli Stati Uniti qualche anno fa, forse tre, perché abbiamo pensato che potesse essere utile in qualche modo farci conoscere anche dal loro pubblico. E, non voglio assolutamente mancare di rispetto alla band né al loro pubblico, sono dei ragazzi splendidi, ma suonare prima di loro ci ha fatto capire che… il loro pubblico è vecchio. Non è come il nostro, ci siamo resi conto quanto siamo fortunati”.

Ha conosciuto Chester Bennington, il cantante dei Linkin Park che si è tolto la vita nel 2017?
“L’ho conosciuto in quel tour, mi piaceva molto. È triste quello che è successo”.

Ha definito il nuovo album “evil rave”.
“Mi sono inventato una definizione per aiutare un po’ i giornalisti. Il tipo di musica elettronica da rave che ci è sempre piaciuta è quella un po’ più dark, meno allegra, e dopo aver composto un paio di brani di questo album ho detto ‘hey, è evil rave'”.

Come vi vedete nel panorama odierno?
“Non è facile. Ormai la soglia di attenzione è veramente ridotta. Ho un figlio di 14 anni e magari ascolta un brano per 30 secondi e poi passa ad altro. Ed è la stessa cosa con i film. Magari gli dico che c’è un film che vale la pena vedere, lui guarda il trailer e pensa di saperne abbastanza. È fast food. La trap? Mi piaceva, ma in fondo è un vecchio modo di fare hip hop con la drum machine 808. Ma poi l’hanno riscoperta ed è diventata un modo per far entrare certo hip hop nei club e allora è diventata più noiosa. E ora è decisamente abusata”.

Segue ancora concerti e club?
“Beh, vivo a Londra quindi capita spesso. È importante vedere cosa succede intorno. Da produttore è importare ascoltare cosa succede per non rimanere indietro, certo. Ci sono cose interessanti che mi capita di ascoltare, poche in realtà nel mondo del rock. Giusto qualche band, come The Garden. Sono due fratelli, gemelli, americani, interessanti. Non sono la formazione classica con quattro elementi, come i White Stripes, che mi piacevano molto. E gli Sleaford Mods, che sono anche amici. L’idea dei Prodigy è sempre stata questa, scardinare le regole di quello che ci si aspetta da una band. Mi piacciono gli Idles, li seguo dall’inizio, il loro arrivo è stata una bella botta. Ma sicuramente a loro non fa piacere essere i cocchi della stampa britannica, perché di solito quello è il bacio della morte”.

Gianni Santoro, repubblica.it

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