“Com’è stato difficile per me fare la cronista alcolizzata”

L’attrice protagonista di «Sharp Objects», tratto dal bestseller «Sulla pelle», racconta come ha affrontato la complessa serie

La prima volta di Amy Adams sul piccolo schermo. L’attrice 44enne nata a Vicenza suo padre era un militare dell’esercito americano di stanza nella caserma Ederle è pronta a fare il suo debutto in tv. Accade con Sharp Objects, miniserie di otto puntate (in onda su Sky Atlantic) diretta da Jean Marc Vallée (Dallas Buyers Club, Big Little Lies) basata sul best seller Sulla Pelle, di Gillian Flynn (già autrice de L’Amore Bugiardo Gone Girl). Non era mai accaduto che la Adams, candidata cinque volte al Premio Oscar, si concedesse per una serie tv da protagonista. A convincerla è stata la storia di Camille, una reporter di cronaca nera costretta a fare ritorno alla sua città natale, Wind Gap, in Missouri, per seguire un caso molto particolare: l’omicidio di una bambina e la scomparsa di una seconda fanciulla. Camille è una giornalista e una donna molto tormentata. Ha seri problemi di alcol ed è appena uscita da un ospedale psichiatrico. Le storie delle due bambine, che sembrano essere legate tra loro, la costringeranno a fare i conti con i suoi demoni ma soprattutto ad affrontare, una volta per tutte il difficile rapporto che ha da sempre la madre (interpretata da Patricia Clarkson).

Le è piaciuto recitare per la tv?

«Molto. Mi piace l’ambiente televisivo, vorrei frequentarlo maggiormente, magari nei panni di produttrice».

A proposito, Marti Noxon, la produttrice della serie, è convinta che l’interpretazione del personaggio sia stato per lei un enorme fardello con cui convivere. È d’accordo?

«Direi di sì. Quando sono sul set sono sempre molto concentrata e non penso ad altro se non alla parte. Il mio non è un personaggio semplice con cui convivere e a volte la cosa può diventare davvero pesante. Ma in quanto attrice so benissimo che si tratta solo di empatia nei confronti di qualcun altro, nulla di più».

Perché non ha mai interpretato un personaggio del genere prima d’ora, c’era qualcosa che la intimoriva?

«Di certo non l’oscurità di una storia, quella non mi ha mai spaventata. Non è accaduto prima perché qualche anno fa, soprattutto all’inizio della mia carriera, non sarei stata in grado di interpretare un personaggio del genere. La recitazione, come altre cose nella vita, migliora col tempo».

Quanto è difficile interpretare un’alcolizzata?

«Non ho mai avuto esperienze personali dirette, ma è un ruolo molto stimolante. Camille è quel tipo di persona che beve per trovare il suo equilibrio. Il problema che ha con l’alcol lo si nota quando non beve, non quando è ubriaca».

Qual è stato l’aspetto più difficile da affrontare?

«Il fatto di dover bere al volante. È una cosa che m’infastidisce molto, da sempre. In ogni caso è anche il bello del mestiere: interpretare qualcuno con norme e valori molto diversi dai tuoi».

Camille è una persona che aiuterebbe nella vita reale?

«Forse un tempo, oggi non più. Le persone che non riescono a prendersi cura di se stesse, non portano mai a nulla di buono».

Anche lei, come Camille, lotta contro qualche demone?

«Tutti noi lo facciamo, gli artisti in maniera particolare: sfruttiamo le nostre paure trasformandole in energia positiva per creare arte».

È sempre stato così per lei?

«Assolutamente no. Quando ero giovane mi sentivo molto sola nella mia tristezza, poi crescendo mi sono resa conto che è un qualcosa che capita a tutti».

Quindi è a suo agio anche nelle difficoltà?

«In un certo senso sì. A mia figlia (Aviana Olea, ndr) dico sempre che c’è un enorme differenza tra una cosa che fa male e una cosa che ti fa sentire a disagio. Lavorare attraverso il disagio spesso aiuta a superare i momenti più difficili della vita».

La vedremo piangere nella serie?

«Vedrete piangere Camille, non me».

 

Tiziano Marino, Il Giornale

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