L’America choc di Minervini: nera e condannata al sottosuolo

«What You Gonna Do When the World’s on Fire?» del regista italiano in gara denuncia i volti del razzismo negli Usa. «La polizia sparava, mi buttavo a terra per paura»

Non ha dubbi: «La macchina da presa va puntata sulle cose che non si conoscono, anche quando la polizia sparava e io mi buttavo a terra per paura. Per questo, sento la responsabilità di far conoscere un’altra America all’Europa dei bianchi, l’America nera che a volte viene condannata al sottosuolo». E l’allusione alle memorie dostoevskiane è perfetta per spiegare il percorso di questo What You Gonna Do When the World’s on Fire? (Che fare quando il mondo è in fiamme?), secondo film italiano in concorso alla Mostra. Dopo il Texas dei primi film, Minervini gira in parte in Louisiana e in parte a New Orleans per raccontare alcune facce del razzismo e della negritudine: gli indiani di pelle scura (molti ex schiavi avevano trovato accoglienza tra i nativi americani, incrociandosi con loro) che si preparano a festeggiare il Mardi Gras nei loro variopinti costumi; il bar di Judy Hill a Tremé, New Orleans, diventato punto di ritrovo per gli amanti del folk blues; la vita quotidiana di Ashley che vuole impedire ai figli Ronaldo e Titus di imboccare brutte strade; le attività del New Black Panther Party for Self Defense.Un materiale immenso (più di 150 ore di girato) «che avrebbe potuto diventare un film in dieci puntate» e che è stato sintetizzato in poco più di due ore per mostrare quello che pensano i neri della loro situazione. Per questo i momenti più emozionanti sono proprio quelli in cui la macchina da presa riesce a mimetizzarsi fino a «sparire» e registrare gli sfoghi della madre col figlio che sembra abbassare la guardia di fronte ai rischi della violenza e della droga. O l’incontro, drammatico e insieme commovente, tra Judy (che in passato aveva ceduto alle droghe) e un’amica che invece ne è schiava. O i giri per le periferie dove i membri delle Black Panthers distribuiscono cibo ai poveracci senza distinzione per il colore della pelle. Minervini continua nel suo impegno a mostrare un’America marginale e dimenticata, tra la voglia di difendere le radici della propria storia (la tradizione del Mardi Gras) e l’inesorabile sconfitta di fronte al potere, vuoi economico (Judy è sfrattata per l’aumento dell’affitto) vuoi repressivo (l’arresto di alcuni militanti Black Panthers). A volte rischia di accumulare fin troppe storie e materiali ma in questo modo sa anche proporre allo spettatore i tanti aspetti contraddittori della questione razziale, che continua a far sanguinare l’America. Un’altra America, quella del West, è invece al centro di The Sisters Brothers di Jacques Audiard, storia di due fratelli killer (Joaquin Phoenix e John C. Reilly) sulle tracce di un sorprendente cercatore d’oro (Riz Ahmed) e di un insolito detective (Jake Gyllenhaal). Tra sparatorie e tradimenti, cambi di fronte e inseguimenti, il film si trasforma in una specie di riflessione sui miti fondanti di una nazione, a cominciare dal fascino della Natura e il gusto dell’Avventura. Durante la loro storia (narrata nel romanzo di Patrick deWitt e sceneggiata dal regista con Thomas Bidegain) i due fratelli Sisters fanno i conti con l’avidità e la violenza, la misoginia e la sfida ai padri, esaltano l’amicizia virile e inseguono l’utopia, sfiorano l’amore e cercano conforto nella famiglia. Non è la prima volta che un europeo si misura con il più americano dei generi ma a differenza di Sergio Leone, il francese Audiard tiene a freno l’epica per privilegiare uno spirito picaresco da racconto morale avvincente e divertente. Per me un altro possibile candidato al Leone d’oro.

Paolo Mereghetti, corriere.it

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