Cori Gauff, l’enfant prodige del tennis che ha battuto Venus Williams

A 15 anni e 110 giorni Cori Gauff supera una leggenda del tennis a Wimbledon e diventa la più giovane tennista del terzo millennio ad aver vinto una partita in uno Slam

Cori Gauff si accascia a terra sul campo n. 1 di Wimbledon, le mani a coprirle gli occhi nel tentativo di fermare le lacrime che le rigano il volto sotto lo sguardo di 12 mila persone. A toglierle l’equilibrio è l’emozione, non di certo la fatica per un match che passerà alla storia anche se di storia non ne ha proprio avuta. Dall’altra parte del campo, Venus Williams ha appena spedito sulla rete l’ultima palla di un incontro che sa di passaggio di consegne. A 15 anni e 110 giorni Cori è la più giovane tennista ad aver vinto una partita di uno Slam nel Terzo Millennio, poche ore dopo essere stata la più giovane di sempre ad averne raggiunto il tabellone principale passando dalle qualificazioni.

La più giovane, Coco, è abituata a esserlo. A 13 anni era già un talento tale da suscitare l’interesse del Team8, l’agenzia di management che gestisce anche Roger Federer, a 14 è stata la più precoce leader del ranking juniores Wta. Ha sempre giocato contro avversarie più grandi di lei, ma con Venus, che di anni gliene passa 24, era diverso. Perché come ogni ragazza che giochi a tennis negli Stati Uniti, Cori è cresciuta col mito delle sorelle Williams, e a molti ricorda proprio la più grande, sotto ogni aspetto. Come gioca, ovviamente, come colpisce la palla col rovescio a due mani accompagnandolo con un movimento perfetto delle ginocchia, persino come cammina, strascicando un po’ i piedi. Sì, alle soglie dei 40 Venus non è più quella di un tempo, ma bisogna pur sempre batterla, e farlo a 15 anni pare un’impresa non da poco.

Cori Gauff è uno di quei talenti che si notano subito, donati dalla natura. Il dna raramente sbaglia, così avere una mamma che fu eptatleta e un papà cestista di ottimo livello al college deve averla in qualche modo aiutata. A fare basket poteva finirci anche lei, che è già alta 1 metro e 80 e che ama la palla a spicchi giusto un po’ meno della pallina da tennis. Papà Corey avrebbe gradito, ma lei ha scelto un’altra strada e a quanto pare è quella giusta. Ha giocato una manciata di partite da professionista, vincendo la prima in un torneo Wta qualche mese fa a Miami, superando tre match nel tabellone di qualificazione di Wimbledon e presentandosi al primo turno davanti a sua maestà Venus a cui sognava di stringere la mano ma forse non pensava che l’avrebbe fatto dopo una vittoria. E col pubblico che alla fine ha deciso di fare il tifo per lei.

A scoprirla è stata Patrick Mouratoglou, il leggendario coach che dal 2012 segue l’altra Williams, Serena. Poi ci hanno messo sopra gli occhi anche gli sponsor, con i primi contratti firmati con New Balance e Barilla, di cui è testimonial con Roger Federer e Mikaela Shiffrin. Gioca a tennis perché può farlo da sola e non vuole sentirsi addosso la responsabilità di altre persone, ma anche perché vuole il pieno controllo su ciò che avviene in campo e sul suo risultato. È un’individualista che crede nella famiglia, va forte sull’erba ma anche sulle altre superfici: è stata finalista di uno Us Open junior (cemento) e ha vinto un Roland Garros junior (terra rossa).

Dopo Wimbledon, comunque vada a finire, è probabile che gli impegni mediatici superino quelli sul campo. La Wta infatti protegge i talenti così giovani imponendo un massimo di 10 tornei pro all’anno, per evitare che si brucino e permettere loro di proseguire il loro percorso di maturazione. Una strada che Cori sembra aver imboccato già con decisione. Nel tennis femminile tira aria di ricambio generazionale, c’è bisogno di nuove fuoriclasse che prendano il posto delle sorelle Williams, e lei è una delle candidate più solide. Ha solo un difetto: come ha raccontato in un’intervista al sito Ubitennis.com, sulla pasta ama mischiare il pomodoro alla salsa Alfredo, un intruglio americanissimo di burro e parmigiano. Ma a 15 anni c’è tempo per migliorare, anche quando si tratta di sedersi davanti a un piatto di spaghetti.

Gabriele Lippi, Vanity Fair

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