Bruce Willis, cos’è l’afasia? L’esperta spiega la sindrome, che ha costretto l’attore al ritiro

 Una perdita parziale o totale di processi necessari alla comprensione e produzione del linguaggio (sia esso scritto che orale) a causa di un danno focale cerebrale che spesso riguarda l’emisfero dominante: il sinistro. E’ la definizione dell’afasia, la sindrome che ha colpito Bruce Willis costringendolo al ritiro dalle scene. Si calcola che in Italia circa 120.000 persone siano colpite ogni anno da ictus e; di queste, almeno 15.000 hanno ancora importanti disturbi del linguaggio dopo un anno. Attualmente, il numero di persone afasiche in Italia in seguito a malattie cerebrovascolari si aggira intorno a 150.000; a queste si debbono aggiungere le persone che presentano disturbi del linguaggio in seguito ad altre patologie. Non esistono cure farmacologiche, ma solo riabilitative, messe in atto dal Logopedista. Numerosi studi sperimentali hanno infatti dimostrato che l’unico trattamento efficace, anche se molto raramente risolutivo, è il trattamento logopedico, purchè sufficientemente protratto e intenso. Una ricerca condotta sui servizi di riabilitazione in Italia ha purtroppo messo in evidenza il fatto che molto raramente il servizio offerto risponde alle richieste di intensità/durata necessarie ad ottenere un risultato significativo.  
“Lo stroke, l’ictus, è la principale causa di afasia – spiega Tiziana Rossetto, presidente della FLI, la Federazione dei Logopedisti –. L’incidenza varia secondo gli studi da 21 a 38%. La seconda causa è il trauma encefalico (11%), la terza sono i tumori encefalici (3,8%). La causa maggiore è sicuramente quella legata all’incidente stradale dovuta a scarsa adesione alle regole della strada e guida in stato di ubriachezza o per assunzione di sostanze stupefacenti”. Altre cause di trauma cranico, invece, sono riconducibili a lavori domestici, incidenti sul luogo di lavoro, attività sportiva e aggressioni. “Difficile comprendere la causa di afasia per Bruce Willis. Se non vi sono stati traumi o ictus, è facile che si tratti di una forma involutiva che colpisce il linguaggio”.  “Tra i sintomi dell’afasia, oltre al disturbo di coscienza qualche volta irreversibile (coma, stato vegetativo…), troviamo altri disordini legati alla comunicazione (memoria, attenzione, comportamento, ragionamento astratto, capacità di problem solving) che rendono necessario un trattamento riabilitativo prolungato e sempre in team interprofessionale per poter far raggiungere alla persona con afasia il più alto livello di autonomia possibile – prosegue Tiziana Rossetto –. Il disturbo di linguaggio si presenta non solo nella sua caratteristica di perdita parziale o totale di comprensione e produzione del linguaggio scritto e orale, ma anche nella capacità di utilizzare lo stesso in diversi contesti. La persona può presentare un linguaggio ridondante, non pertinente, poco focalizzato sul tema principale, andando così a inficiare quella che è la ‘efficacia comunicativa’ e spesso a compromettere le relazioni sociali”.  
La valutazione del disturbo afasico viene eseguita già in fase acuta (le Linee Guida sull’afasia, pubblicate di recente sul sito dell’ISS a cura della Federazione Logopedisti Italiani, propongono almeno 4 giorni dopo l’insorgere della patologia) da parte di personale specializzato e organizzato in team allo scopo di valutare e monitorare il linguaggio nella sua evoluzione.  
Un buon recupero dipende da diverse variabili: “l’età, il sesso, la scolarità, seppur non determinanti, vanno sempre presi in considerazione – precisa la presidente dei Logopedisti –. Altri aspetti generali, come la motivazione, la presenza di depressione o altri disturbi di tipo più psichiatrico (spesso trattati farmacologicamente), la presenza di una rete sociale di supporto, una famiglia collaborante, sono sicuramente delle variabili che aiutano il paziente nel recupero non solo delle proprie difficoltà ma anche della ripresa di attività e di un ruolo sociale. Un ampio accordo è stato raggiunto da tutti professionisti della riabilitazione sull’importanza di un approccio biopsicosociale che vede al centro dell’intervento riabilitativo il paziente nel suo ambiente che deve considerare non solo gli aspetti propri della patologia ma deve assicurare un livello di benessere fisico, psichico e sociale”. 

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