Paola Turci: «Il romantico non mi dona»

A due anni dalla «rinascita» con «Fatti bella per te», torna all’Ariston con un brano intenso. Dedicato a una persona importante che le diceva: «Non avere paura di tremare»

Questa intervista è pubblicata sul numero 5 di Vanity Fair in edicola fino a mercoledì 6 febbraio 2019.

Un’eclissi di Superluna non è qualcosa di lontano che succede solo in cielo. Gli influssi si fanno sentire anche qui sulla Terra e Paola Turci, del segno della Vergine, per gli oroscopi futuri si scoprirà liberata dall’«effetto riflettore»: «Il valore del giudizio degli altri, il volume di “quello che pensano”, è sempre stato per me alto. Poi l’ho abbassato parecchio con Fatti bella per te, quando mi sono detta che mi sarei amata lo stesso.

Ho spinto “stop” e non le ho sentite più: le timidezze, le insicurezze profonde che mi rimpicciolivano. E sono rinata, senza inibizioni». È il Festival del 2017: all’Ariston scopre il viso, riesce a non nascondere più la cicatrice di quell’incidente passato, a tornare a giocare. Le sta battendo dentro, già, un Secondo cuore (l’album di quello stesso anno), che la porterà a scrivere, di nuovo, di sé («perché è di sé che sempre si scrive») e del superamento dell’Ultimo ostacolo, che non a caso è il brano che presenta a Sanremo 2019.

Il testo inizia così: «Fermati, che non è l’ora dei saluti. Vieni qui, e abbracciami per due minuti». A chi sono riferite queste parole?
«Le canzoni spesso servono a trattenere un momento, a farci tornare in un “lì”. Nel mio, sto per perdere mio padre. O almeno è quel che credo. Perché poi è successo che non ne ho mai parlato così tanto come da quando se n’è andato».
Assenza è più intensa presenza, a volte.
«E idealizzazione. Non è stato un supereroe: avevamo un rapporto di simpatia, ma non sono mai dipesa da lui. Poi l’ho visto nell’ultimo respiro, ho ascoltato le sue ultime parole: “Dimmi, cara”. E ora lo ritrovo quando attraverso le porte affrescate e strette. Arriva senza che io lo cerchi».
Le diceva: «Non aver paura di tremare». Per che cosa, ancora, le accade?
«I mesi seguiti all’ultimo Sanremo e disco non sono stati facili. Come la fine della festa, svegliarsi la mattina dopo. Sei contenta, ma hai un gran cerchio alla testa, e domande aperte senza risposte. Ho avuto un down fisiologico».
«Che siamo fiamme in mezzo al vento, fragili ma sempre in verticale».
«Da quando mi alleno so che non si può essere sempre in perfetta forma. Il corpo non sostiene a lungo la tensione. All’onda che va su, segue quella che va giù».
Cosa c’è giù?
«Un po’ di vuoto, barcollamento emotivo. Capita dal niente di non respirare più, che il pianto salga alla gola. Gli attacchi di panico non li avevo mai conosciuti. Poi al concerto di Emma, io e Giorgia ci siamo sedute in mezzo alla gente: aumentava e non ci ho capito più niente. Mi sono alzata. Facendomi largo a spintoni sono corsa fuori, in lacrime, spaventando tutti».
Ne ha più avuti?
«Alcuni, poi sono scomparsi. Grazie alla meditazione, ho raggiunto un equilibrio: “Piove però siamo fuori pericolo/riusciremo a respirare nel diluvio universale”».
Quali «appuntamenti» è stata «obbligata a perdere»?
«Quello con il compagno, l’altra metà. Per questo mio essere istintiva, curiosa, sperimentatrice. Seguire i richiami. E non far pace con l’abitudine».
Gli uomini venuti dopo suo padre.
«Nessuno è valso la pena».
Da uno ha subito molestie, anche, quando era bambina. Lo ha cantato nel 2005 in Fiore di giardino.
«Avevo tredici anni. Ricordo il senso di vergogna, dentro qualcosa di innaturale. E una responsabilità, come fosse stata colpa mia. Successe che eravamo in casa. Lui, io e una mia amica della mia età. Iniziò a farci le stesse cose. Ci mise a sedere su uno sgabello, sfogliava giornali pornografici e chiedeva se ci piacesse e quanto».
Reazioni?
«Io avevo la nausea come quando mangi ed è troppo e non ce la fai più. Durò pochissimo e fu interminabile. Finché m’implose dentro un “adesso basta” e fermai tutto scappando veloce, via».
Chi era lui?
«Uno grande. Quand’è morto, ho provato sollievo».
Ne parlò con qualcuno?
«In analisi, da adulta, mettendo insieme le fila. Se tornassi indietro, denuncerei, andrei in un centro antiviolenza e mi farei ascoltare, difendere, proteggere».
Che segni ha lasciato?
«Un fastidio esagerato per parole e atteggiamenti fuori posto per cui ero capace di tirare ceffoni: mi facevo giustizia così. I complimenti, quelli sì, li accoglievo. Un uomo mi definì “sublime”. Mi piacque».
E lei, piaceva?
«Solo d’estate, quando ne avevo anche cinque che mi corteggiavano contemporaneamente. Mi abbronzavo un po’, mi uscivano questi occhi verdi, e sprigionavo libertà. D’inverno non mi vedeva nessuno».
Che ragazza è stata?
«Avevo paure che il mondo, per fortuna, ha vinto. Penso alle vittorie di questo secolo, per cui non dobbiamo più soffocare la nostra sessualità, e si può essere quel che si è per natura. Nonostante questo colpo di coda da medioevo politico in cui si è tornati a parlare del colore della pelle, a mettere in dubbio la legittimità dei matrimoni gay».
Look per l’Ariston?
«Il romantico non mi sta bene. Il femminile dentro abiti dalle linee maschili, sì».
Giochiamo con i suoi brani più famosi. Io sono: un autoritratto?
«Una sorpresa. Senza più freni, non mediata. Da me puoi aspettarti di tutto».
Bambini: cosa si prova quando li fanno gli ex con cui li aveva immaginati?
«Andrea (Amato, suo marito dal 2010 al 2012, ndr) è appena diventato papà di una femmina. Quando me l’ha detto ne sono stata felice. E non mi è venuto un “poteva essere mia”. È stato giustissimo così».
Vale ancora quel Ringrazio Dio?
«Anche se non lo prego più, continua a farmi regali. A tirarmi fuori dalle lamiere e dal buio in cui capita mi ricacci».
Volo così: dove sceglie di andare?
«Ai miei 80 anni. Mi immagino di arrivarci da sportiva, sciando. Piccola, magra magra. Leggera».

Lavinia Farnese, Vanity Fair

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