Claudio Santamaria: «Mia moglie Francesca Barra ballò con me il suo primo lento: lei aveva 12 anni, io 16»

Claudio Santamaria sta facendo il gioco delle tre palline a una velocità che non gli stai dietro con gli occhi. Le palline sono immaginarie ma sembra di vederle. Sta provando a spiegarmi che saper recitare — e forse perfino saper vivere — è come saper fare quel gioco lì: «È una dilatazione apparente del tempo, una cosa che ho trovato nell’ultima parte della mia carriera: vedi che le palline vanno lentissime, ma non sono loro lente, sei tu che hai dilatato il tuo tempo interiore. Lo stesso quando dici una battuta: dentro di te, la senti lunghissima, la controlli tutta, e questa stabilità, autorevolezza è una cosa che, prima, raggiungi nella vita. L’ho visto, due anni fa, girando Gli anni più belli di Gabriele Muccino e ritrovando quelle vecchie lenze di Pier Francesco Favino e Kim Rossi Stuart. Avevamo fatto Romanzo criminale nel 2005, ho visto tre percorsi di una crescita che non viene da come porgi la battuta». Francesca Barra, la moglie di Claudio, giornalista, scrittrice, conduttrice, passa nella stanza, preceduta dal pancione: «Stai attaccando una pippa delle tue?». Lui smette di palleggiare: «Eh sì, sono un attacca siluri micidiale: per spiegare le cose, faccio giri lunghissimi».

Le avevo chiesto come ha creato Fulvio, l’uomo lupo di «Freaks Out», il circense dalla forza disumana braccato dai nazisti nel kolossal da 13 milioni di euro ora al cinema.
«Gabriele Mainetti cercava non la forza bruta, ma la trasparenza emotiva, la capacità di trasmettere emozioni anche attraverso un viso coperto da due chili di peli. Essere forti in un film è facile, per sollevare un energumeno da 180 chili, ci sono gli stuntmen. Io ho cercato di installare in Fulvio la paura che il mondo ha di lui e allo stesso tempo di dargli statura, maturità. Però, appunto, la pippa serviva per dire che io stesso, al provino, avevo una maturità diversa».

Che tipo di maturità?
«La mia unione con Francesca, mettere su casa assieme a Milano per me che venivo da Roma, con lei che aveva già tre figli, mi ha dato forza anche nella professione. Già all’inizio, c’era stata la scoperta del teatro come terapia di vita: i due percorsi sono indissolubilmente legati».

Come arrivò la recitazione?
«Mamma aveva la passione del doppiaggio. Amava la voce di Claudio Capone, il Ridge di Beautiful. Un giorno mi disse: i tuoi due fratelli non hanno mai voluto fare la scuola di doppiaggio. Risposi: vabbé, la faccio io».

Dove siamo? Quando e in che famiglia?
«Siamo intorno ai miei 15 anni, studiavo all’Artistico e sognavo di fare l’architetto. Vivevo al quartiere Prati di Roma. Oggi è una zona elegante, ma noi stavamo lì perché c’erano le case a equo canone. Papà era pittore edile. Quando incontrai Ermanno Olmi, ci scambiammo i diversi odori di casa: suo padre era ferroviere, sapeva di olio, di binari; io ricordo vernici, acqua ragia. Ero il più piccolo di tre maschi, stavamo sempre per strada, con masnade di ragazzini. C’era poco traffico, si giocava a pallone, a nascondino. Si viveva di fantasia e correvo sempre: corse intorno al palazzo, corse per qualsiasi cosa».

Perché all’asilo la chiamavano «il bell’addormentato»?
«Ho questo sguardo sognante, languido. Mi perdevo nelle mie fantasie, chi sa dove andavo. Una volta, a calcio, ero in difesa, numero tre, fanno il cambio campo e non me ne accorgo. Sento urlare dagli spalti: “A tre… devi anda’ de là”. Nelle estati in Basilicata, perché mamma era di Senise, coi cugini, vivevamo nei campi e disquisivamo sulle stelle, sul cosmo, su quello che c’era oltre. Avevo una capacità di astrazione che poi si è rivelata fondamentale nel mestiere».

A che cosa serve l’astrazione per fare l’attore?
«A me il doppiaggio interessava perché era come giocare senza essere visto: ero estroverso, ma a volte andavo in una timidezza fuori norma. Pensavo che la scuola di doppiaggio si facesse in uno studio di registrazione, invece, mi ritrovo su un palco. Mi dissero: hai tre minuti per dire quello che ti pare. Dissi nome, cognome e restai in silenzio per due minuti e 45, imbarazzatissimo. Cominciammo un lavoro ispirato al metodo Stanislavskij, basato sull’improvvisazione. Siccome ero bravo a fare scherzi, capii che fare l’attore è come fare uno scherzo: se tu ci credi, la vittima ci crede, se sostituiamo la vittima con lo spettatore, è fatta. Scoprii che potevo portare qui i mondi in cui mi astraevo. Gridavo, piangevo, poi finivo e andavo a casa contento. Era salutare: agivo sulla rabbia che tenevo nascosta, non ero un ragazzino che si confidava, si apriva».

Qual era la sua rabbia?
(Sospira, ci pensa) «Glielo direi se questa fosse una seduta di psicoterapia. Ognuno ha la sua nevrosi, il suo buco nero, tutto avviene e nasce nella famiglia, tutti abbiamo avuto il momento in cui siamo stati traditi, abbandonati, umiliati. Questo mestiere mi ha consentito di fare i conti con ogni momento della mia vita e usarlo. Poi, piano piano, la rabbia se ne va».

Lei si porta il personaggio a casa e fatica a uscirne o ci entra e ne esce a piacimento?
«Dipende. Per un dieci per cento, non lo lascio mai. Quando ho fatto Lo chiamavano Jeeg Robot ci stavo 24 ore, telefonavo, dicevo: “che voi? Oh, cia’…” . E mettevo giù. Un esercizio che t’insegnano a scuola di recitazione è giocare col personaggio nel quotidiano, dal macellaio, dal barbiere. Ora è più difficile: mi riconoscono».

Un’esercitazione estrema?
«Per Almost Blue di Alex Infascelli, facevo un cieco. Avevo affittato un seminterrato buio per allenarmi. Bendato, mi facevo pure portare in giro da mio cugino. Fermi al semaforo, sembrava che le auto mi arrivassero addosso, era veramente spaventoso. Però non credo a chi dice “questo personaggio mi ha fatto male, quanto ci ho messo a mandarlo via”: se non sai mandarlo via è perché c’è una parte di te che non hai accettato. L’attore è un esploratore dell’oscurità e deve saper tenere il filo rosso per ritrovare la strada».

Lei quando ha esplorato la sua oscurità?
«Nell’Ultimo bacio di Muccino, mi confrontai con l’angoscia e l’irrequietezza di chi si è sempre adattato al mondo intorno a lui. Lì affrontai un personaggio, Paolo, che voleva che le cose fossero come le desiderava, forzava il padre, la ex. Grazie a lui, ho fatto i conti con la mia rabbia».

Ha girato uno 007, «Casino Royal». Com’è andata con Daniele Craig?
«Alla prima capocciata, ha dato una botta a un bullone sul muro. Mi fa: “welcome in my world, sei mesi così, ho le capsule al posto dei denti, sono distrutto”. Gridava come un gorilla: “voglio tornare sul lago di Como”. Un’alba, dopo una notte di set, ci siamo ritrovati come due ragazzini nel camper trucco. A terra, c’era una falena gigantesca. Ci siamo inginocchiati, dico “oddio che bella”, e lui: “non toccare le ali, se no, non può più volare”. Quindi, mi fa: “io e te ci siamo presi a pugni finora e stiamo qua a coccolare una farfallona”».

Sui social, suona spesso la tromba.
«La comprai dopo aver sentito Miles Davis fare Ascensore per il patibolo. La mollai, la ripresi quando girai Ma quando arrivano le ragazze di Pupi Avati. Dal lockdown, suono ogni giorno. Suonerò pure nella colonna del prossimo film di Stefano Cipani, Educazione fisica. Mi sentiva suonare in camerino e mi ha ingaggiato».

Canta anche. L’ha fatto nella miniserie Rai su Rino Gaetano.
«Io, a volte, ho delle percezioni. Dissi alla mia agente: vorrei tanto interpretare un cantante, sarebbe stupendo Rino Gaetano. Be’… C’era una serie in preparazione… Al regista Marco Turco cantai Sfiorivano le viole, mi disse: “ma devi cantare tu”. E io: “non hai capito, se non canto, non lo faccio”. Oggi, se ho un sogno, è incidere un disco. E andare a Sanremo da concorrente».

Fino a qualche anno fa, dava l’idea di essere preciso, compito, riservatissimo. Poi, l’abbiamo vista ballare a Sanremo con sua moglie, mettere su Instagram vostri nudi artistici e partecipare con lei al reality «Celebrity Hunted» di Amazon Prime. Lei è cambiato tanto.
«Sono d’accordo. Ho incontrato la mia persona, Francesca, che è anche quella a cui ho confessato i miei drammi familiari. Con lei ho capito cosa significa prendersi cura dell’altro, cos’è l’anima che incontra l’anima e com’è condividere un’intimità vera. È cambiato il mio modo di stare al mondo e di lavorare. Questo cambiamento mi ha permesso di giocare a guardie e ladri su Amazon, di uscire di più come persona che come attore».

Era arrivato a 44 anni senza essersi mai sposato, anche se ha una figlia di 14, e si è ritrovato in una grande famiglia allargata.
«Io, da piccolo, vivevo in cinque in una stanza. Poi, uscito di casa, volevo provare tutti i giorni la bellezza di quando tutti sono via e tu sei finalmente solo. Ora, sono passato dalla solitudine estrema a una casa in cui può transitare anche un treno, ma senti solo gioia, amore e felicità. Ero molto chiuso e ora sono molto aperto».

Chi è la bimba che sta passando alle sue spalle spingendo un passeggino?
«Greta, la terzogenita di Francesca, ha 5 anni, è intelligentissima».

La bimba che arriverà a febbraio?
«È stata voluta, cercata. E finalmente c’è».

Perché, prima che in Italia, lei e Francesca vi siete sposati a Las Vegas?
«Perché è stato bello decidere di comprare le fedi e un attimo dopo dirsi sì. Quando lei aveva 12 anni e io 16, in Basilicata, ballò con me il suo primo lento. Ogni tanto, la rivedevo a Roma e le dicevo: vediamoci, ma non avevo il coraggio di chiederle il numero. Io che non mi sono mai visto bello, la vedevo troppo bella per me. L’ho ritrovata poi dopo tanto tempo e ho aperto gli occhi su qualcosa di profondamente familiare, nonché di astonishingly beautiful».

Su Instagram, ha letto una poesia di Wislawa Szymborska. Giro a lei la domanda che pongono quei versi: «Un amore felice è necessario?».
«Assolutamente sì, lo è. Non avere un amore felice ti porta a sbeffeggiare l’amore romantico. Ma quando ce l’hai, capisci che quel cinismo verso l’amore era solo paura».

Candida Morvillo, corriere.it

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