Roberto Bolle al primo ruolo da «cattivo» nel balletto «Madina», inno alla vita di una martire

Lo stupro di una ragazza, la violenza degli uomini sul corpo delle donne, la follia dell’integralismo e del terrorismo che su di loro si accanisce con ferocia vigliacca. È la storia di Madina, ma anche di tante altre. Oggi di drammatica attualità in Medio Oriente e pure da noi, in quelle nostre case in apparenza tranquille dove nessuna può ormai dirsi al sicuro. Per questo «Madina», balletto melologo su musica di Fabio Vacchi dal 1°ottobre alla Scala, nuova produzione del teatro, si annuncia in tutto e per tutto come uno specchio dei nostri tempi. «Madina» è «La ragazza che non voleva morire», come dice il titolo del romanzo di Emmanuelle de Villepin, autrice anche di un libretto pensato in primo tempo per un’opera, poi diventato una creazione di teatro danza.

Così alla musica di Vacchi si affianca la coreografia di Mauro Bigonzetti, a ballare sono l’étoile Roberto Bolle e la prima ballerina Antonella Albano, a recitare in proscenio l’attore Fabrizio Falco, a cantare in buca il tenore Chaun Wang e il mezzosoprano Anna-Doris Capitelli, a dirigere tutti il bravissimo Michele Gamba. «Una trasformazione, da opera tradizionale a inedita sintesi di ogni linguaggio del palcoscenico, che ha giovato al senso di una storia al cui centro c’è il corpo della protagonista — spiega Vacchi, che con la Scala ha un lungo legame di collaborazione, da Teneke, regista Ermanno Olmi, al Prospero ispirato alla Tempesta shakespeariana —. La sua fisicità offesa qui viene evocata con emozionante veridicità dai corpi dei danzatori, impegnati in alcuni momenti in scene molto crude e angosciose».

Vedere per credere Roberto Bolle, per la prima volta nella sua carriera in un ruolo di «cattivo», lo zio di Madina terrorista e fanatico che, non sopportando la vergogna di una nipote violentata, la spinge a diventare kamikaze per lavare l’onta con il sacro sangue del martirio. Ma Madina, pur se plagiata e sul punto di farsi saltare in aria, non vuole morire. «L’estremo barlume di umanità, di istinto di sopravvivenza, la spingerà a gettare all’ultimo la fatale cintura esplosiva. Sarà arrestata, processata. Non denuncerà nessuno, verrà condannata a 20 anni. Alle tante violenze che ha già subito se ne aggiungerà un’altra. Ma aver confessato la sua paura, aver rinunciato a uccidere, è comunque per Madina una scelta di vita».

Una ribellione al fondamentalismo tornata prepotentemente alla ribalta proprio in questi giorni. Ma tutta la parte «politica» non comparirà in scena. «Quella che ha ispirato il libretto è una vicenda vera, legata alla guerra in Cecenia. Togliere le connotazioni della storia ho pensato rendesse Madina più complessa e universale. Mi premeva sottolineare non una violenza singola ma la spirale di genere che attanaglia ovunque il corpo femminile. La corporeità e la comunicazione sono al centro della mia estetica. Per questo ho sempre respinto i radicalismi algidi e estremi delle avanguardie del Novecento di cui pure mi sento e sono figlio. La musica va reinventata sì, ma tenendo in conto della tradizione. Il mio modello è Bartok, i suoni e valori etnici mi hanno sempre appassionato. Come sono curioso delle voci di oggi, dal rap all’hip hop alla street dance. Per vivere e trovare ascolto la musica “colta” deve confrontarsi con i nuovi generi».

Il teatro danza è una nuova frontiera da esplorare. «C’è qualche precedente, Dioniso germogliatore, composto nel 1998, era segnato da una ritmica orgiastica. E in una mia opera del 2016, Lo specchio magico, avevo inserito la figura di un danzatore. Grazie a Claudio Abbado avevo anche incontrato la magnifica Pina Bausch, c’erano dei progetti insieme, purtroppo lei se n’è andata prima. Lavorare adesso con un coreografo come Bigonzetti è stato interessante, mi ha aperto nuovi territori. La danza mi ha sempre affascinato, so anche ballare discretamente, fin da ragazzo tutte le danze possibili, dal valzer al rock’n’roll… In un mondo sempre più diviso, penso che dovremmo tutti danzare insieme e cantare insieme molto di più».

Giuseppina Manin, corriere.it

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