LUCA BARBARESCHI: “HO PIPPATO CON LOU REED E AVUTO NAOMI CAMPBELL. NON HO BISOGNO DI AMICI”

“Ho 60 anni, l’età in cui morì mio padre. Ero convinto di non arrivarci”

Luca Barbareschi, attore, regista, produttore, direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma, è nato il 28 luglio 1956: “Mio padre morì proprio a 60 anni e io ero convinto che a quest’età non sarei mai arrivato. Ho inseguito il suo fantasma per tutta la vita e ora che l’ho superato, sono diventato mio padre.

Veniva da una famiglia di pirati sefarditi di Fez, i bucanieri più feroci dell’800, gente che impestò il Mediterraneo fino a quando la Marina inglese non arrivò a sterminarli. Sono nato a Montevideo e ho vissuto a lungo in Medioriente. Papà, capo partigiano in Val d’Ossola si laureò a 21 anni e diventò ingegnere civile per la Edison. Aveva disegnato la prima grande arteria d’asfalto che attraversava l’Arabia Saudita, gli aeroporti di Ryad e Gedda e poi era stato trasferito a Beirut. Vivevamo al Royal Beach Hotel e papà, che era fichissimo e suonava indifferentemente fisarmonica e tromba, faceva notte con le più belle fighe del pianeta: ‘Mettiti là e aspettami sul divano’. E io, ligio alle consegne, aspettavo”.

Ai suoi 5 figli, riuniti per festeggiare il patriarca, Barbareschi ha scritto una lettera: “Nella vita mi sono preso sempre il lusso di dire la verità a iniziare da loro. Non gli ho nascosto niente, gli errori e le cose belle”.

Cosa ha scritto ai suoi figli?
“Ho sbagliato spesso, mi sono drogato, sono stato egoista, ma voi – aiutatemi a capire – nei miei panni, al mio posto, cosa avreste fatto?”. Vedono un padre realizzato, ma forse non sanno che sono fragile e pieno di dubbi.

E cosa le hanno risposto?
Nell’ermeneutica c’è una regola non scritta: una vera risposta, per non sminuire il valore della domanda e non offendere l’intelligenza dell’interlocutore, non c’è mai. Non ho scritto la lettera per avere una risposta, ma per fargli capire il bisogno che ho di loro e del loro punto di vista.

Quale eredità gli ha lasciato?
Sicuramente non quella economica. Non avranno un soldo e lo sanno.

Come l’hanno presa?
È stato un trauma, ma hanno potuto studiare in scuole interdette al 99,7 per cento degli esseri umani, possiedono più di un passaporto, conoscono le lingue, sono svegli e colti e possono lavorare ovunque. Nella mia logica errante, ai miei figli non lascio denaro, ma le opportunità di farsi strada nel mondo.

Saranno contenti.
Farebbero bene a esserlo. I figli dei ricchi sono irrimediabilmente cretini. Non hanno motivazioni e sono spesso divorati dai padri. Murdoch, Feltrinelli, Agnelli. I figli chiedevano aiuto e carezze e loro, magari senza rendersene conto, si giravano dall’altra parte. Edoardo diceva all’Avvocato che si era innamorato e Gianni rispondeva: “Solo le cameriere si innamorano”.

Lei è ricco, perché non vuole dividere?
La gente pensa che io sia ricco. Non so se lo sono stato, ma so che oggi ho messo tutto quel che avevo, ogni risparmio nel progetto dell’Eliseo. C’è un’età per ogni cosa e sento che è arrivato il momento di restituire alla comunità.

Investire in un teatro sembra anacronistico.
È tutto in perdita, ma mi sento leggero come un 15enne. Qui ho la mia cameretta, i miei strumenti, i miei libri, i diari che scrivo e catalogo da quando avevo 18 anni. Arrivo alle 7 di mattina, lavoro come un pazzo, vado a dormire felice. Sogno di aprire una scuola di formazione, magari in uno dei tanti cinema abbandonati di Roma.

A metà degli anni 70 lei era a New York.
Ero andato per studiare all’Actors Studio. Conobbi Isabella Rossellini e non so di quante cose mi innamorai contemporaneamente. Era splendida ed era la figlia di Ingrid Bergman. Camminammo lungo Central Park West, mi batteva forte il cuore e mi dichiarai: “Sei bellissima, posso darti un bacio?”. Lei fece un passo indietro: “Non potrei mai stare con un attore, chissà quali ambizioni covi, mi sentirei a disagio”.

E lei era ambizioso?
Certo. Volevo diventare come De Niro, come quelli che al cospetto di Lee Strasberg si erano presentati anatroccoli e dall’Actors Studio erano usciti cigni. Dopo quella passeggiata tornai al Dakota, dove dormivo da una fidanzata dell’epoca, Laura Sudarski, sentendomi un po’ in colpa: “Sono un mostro, un arrivista, forse Isabella ha ragione”.

Rossellini comunque la rifiutò.
E poi si fidanzò con Scorsese. Le telefonai: “È forse bello il tuo Martin?”. Oggi si è un po’ ripulito, ma all’epoca, con quell’unico sopracciglione e i problemi di droga, Scorsese era brutto faceva paura. In quegli anni a New York c’era anche Berlusconi. Era venuto a studiare la tv via cavo e aveva già capito tutto, ma gli italiani di New York, a iniziare da Agnelli e dal suo giro, con i quali ogni tanto cenavamo, arricciavano il naso e lo irridevano.

Berlusconi ne soffriva?
A me Silvio era simpatico. Mi ricordava mio padre. Un uomo non colto, ma pratico che a differenza di mia madre diffidava delle mie letture. Mentre camminava con il suo impermeabile, Berlusconi sembrava consapevole delle differenze tra il suo dinamismo e il mondo immobile dell’Avvocato: “Se facciamo un giro dell’isolato, lo ritrovo ancora al punto di partenza, indeciso se mettere l’orologio sopra o sotto il polsino”. Quando sento dire: “Quanto ci manca l’avvocato”, mi viene da ridere.

E perché le viene da ridere?
Perché mi chiedo a chi manchi veramente. Forse agli attaché culturali, ai servi, ai lacchè con gli stipendi d’oro, a quelli che hanno devastato Rcs con le acquisizioni spericolate. È un mondo, quello di Agnelli, che in eredità al Paese non ha lasciato niente.

Cos’altro ricorda degli anni a New York?
Grandi divertimenti ed eccessi. La droga l’avevo incontrata prima. A Milano girava di tutto. Lsd, mescalina, cocaina, fumo. E noi tutti, come idioti, a drogarci pensando di essere eversivi. L’eroina te la regalavano. Dei miei compagni di liceo in sei morirono di overdose. La borghesia milanese abdicò al proprio ruolo. I padri assenti e i danni del post ’68 fecero il resto. Non c’era più nessun filtro tra genitori e figli, le grandi famiglie ricchissime e borghesi di Milano aprivano le loro magioni al mare o in montagna e noi ci fiondavamo nei lettoni delle madri e delle figlie, in barca o in baita, per farci le canne insieme, fruire di qualche vacanza a costo zero, trombare le ragazze più fighe del Movimento che ovviamente per sentirsi evolute militavano a sinistra, osservare da vicino il rincoglionimento progressivo di un potere che un tempo aveva retto le sorti finanziarie dell’Italia.

Che spettacolo era?
Uno spettacolo incredibile. Le madri ci ricevevano a seno nudo e ogni tanto spuntava un 50enne per tenere lezioni sul Partito Popolare Cinese in mezzo ai cristalli di Boemia.

Famiglie ricche ci diceva.
Ricchissime, a iniziare dalla famiglia Feltrinelli. Su Giangiacomo e sul Pilone di Segrate prima o poi qualcuno dovrà dire la verità.

E qual è la verità?
Che il Mossad l’ha ucciso perché non puoi vendere le armi all’Olp dallo yacht. Ti avvertono tre volte e alla quarta ti fanno un buco in testa. Detto questo, Giangiacomo era un genio.

Nel 1980 le offrono un ruolo da protagonista in uno dei film più censurati della storia: Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato.
Per una parte da protagonista avrei ucciso. Mi dicono: “Il copione non puoi leggerlo, però ti offriamo 50 mila dollari”. Il set era tra Miami e la Colombia, accettai di corsa e mi ritrovai a leggere i pensieri di Leopardi su un’amaca tra un ciak e l’altro. Deodato era stato assistente di Rossellini, aveva grande tecnica, era un cazzaro di enorme talento come tanti artigiani dell’epoca. Nel film, poi plagiato da Blair Witch Project, c’era qualche efferatezza di troppo.

Gli animalisti protestarono per l’uccisione gratuita di maialini e scimmie.
Gli sceneggiatori inventavano riti inesistenti e mi ricordo sul tema discutemmo animatamente. Anni fa, per le proteste degli animalisti che a loro volta volevano scotennarmi, mi ritrovai sotto scorta della Digos per giorni.

Lei ha lavorato spesso con Dino Risi.
Il più simpatico, il più risolto, il meno complessato. Lo andavo a trovare spesso all’Aldrovandi, dove viveva. Una volta rischiai l’avvelenamento con un succo di frutta scaduto. Lo sputai sul tappeto e Dino, serafico, disse solo: “Sopravviverai”.

Cosa gli dava quella certezza?
“Sopravviverai perché ti ho scelto come protagonista del mio film. E sai perché ti ho scelto? Perché hai gli occhi da annunciatrice, il naso da caratteristica e la bocca da figurante”. Poi si interrompeva: “Adesso basta discutere di cinema, parliamo un po’ di figa”.

Lo rimpiange?
Lui e tutti come quelli come Vincenzoni e Sonego che conoscevano la vita. Rodolfo ci metteva intorno al tavolo, arrotava il dialetto veneto e iniziava: “Ragassi, dobbiamo raccontare una storia, una storia che fa godèr la gente”.

Oggi quasi nessuno ricorda più Sonego e Vincenzoni.
Come nessuno ricorda più Germi. Attore e regista con due coglioni così ignorato per una sola ragione: non era comunista. Nel cinema italiano il conformismo ha sempre dominato. Fino al 25 luglio del ’43, tutti in camicia nera. Dopo, tutti ad abiurare a iniziare da Visconti. Il più cattivo. Un esteta i cui film, rivisti oggi, ti danno un decimo dell’emozione di quelli girati da Kazan.

Ci diceva del conformismo dell’ambiente.
Totale. Ogni tanto sento parlar male di Veltroni, con quell’aria di chi ha saputo abbandonare la nave a tempo debito: “Ma sai, io veltroniano non sono mai stato”, ti dicono senza vergogna. Ma come non siete mai stati veltroniani? Siete tutti figli suoi. Vi ha miracolato. Ogni tanto la cambialetta viene ancora pagata. Io a Walter voglio bene, ma che come regista non abbia alcun talento è pacifico. Invece ho visto le immagini della proiezione del suo film sui bambini all’Auditorium. C’erano tutti. E si sdraiavano apologetici. Persino Scola, un uomo libero, costretto a dire: “È un capolavoro” con lo sguardo terreo, disgustato. Come la chiami una cosa del genere? Regime mentale? Ieri c’era il Pd, oggi i 5Stelle. Il mondo dello spettacolo, vedrà, saprà emigrare in fretta.

Con Veltroni discusse in un “Uno contro tutti” del Costanzo Show.
Disse una frase sugli spot che intervallavano i film sulle reti Mediaset e coniò uno slogan infelice: “Non si interrompe un’emozione”. Feci notare che i registi feticcio della sinistra, a partire da Wenders, facevano spot in continuazione. Walter rispose che quella di Wenders era un’emozione commerciale e non ci vidi più. “Senti Walter, tu hai la terza media, adesso ti spiego come stanno le cose”.

Lei si considera di destra?
Sono un vecchio socialista. Un craxiano. Uno che sognava di pagare le tasse e vedersi restituire qualcosa. Dare del fascista a chi esce dal coro è un vecchio trucco che con me non ha mai attaccato. I moralisti sono i peggiori. Vanno a troie e a trans, pippano dalla mattina alla sera e poi alzano il ditino. Con me, che come faro morale ho Walter Chiari. Non era un’educanda Walter, ma non pretendeva di dare lezioncine di etica a nessuno.

I moralisti non le piacciono?
Ai tempi in cui ero in Parlamento, mi attaccavano tutti i giorni. Anche nelle occasioni in cui – penso ai 60 milioni per il Fus che ottenni lottando con Tremonti e Berlusconi – per lo spettacolo italiano feci cose buone. Un giorno mi rompo il cazzo, esco da Montecitorio e lì, davanti ai giornalisti, inizio a leggere le paghe delle stelle di sinistra sempre pronte a piangere miseria. Urla, fischi, boati. “Non fate i fascisti di sinistra, non devo parlare – dissi – solo scorrere la lista”. Negli occhi dei presenti c’era il panico: “Mariangela Melato, 3.000 euro al giorno per 200 repliche, la cifra equivale all’intero budget del Teatro Stabile di Genova”. Gelo. Mi girai verso un esponente del Teatro Valle: “A te l’anno prossimo danno la bresaola”.

Al Valle gli occupanti non la fecero entrare.
Preferirono far entrare Moretti e Germano. Peccato. Se oggi avessi davanti quei ragazzi gli direi facciamo la rivoluzione, ma facciamola davvero con i progetti e con la fatica dell’invenzione. Non scrivendo ‘W la fregna’ o ‘W Cuba’ sul muro.

Con Fini, a cui disse: “An in Rai porta solo mignotte”, parla ancora?
Non più, ma non per quella frase che Gianfranco condivideva. Non ci parlo perché la delusione di Futuro e Libertà fu troppo forte. Ci credevo. Gli organizzai una convention hollywodiana a Bastia Umbra. An fino ad allora aveva visto solo la sagra della salsiccia.

Lei con Casanova sta producendo Brutti e Cattivi di Cosimo Gomez con Santamaria e D’Amore e The start up, per la regia di D’Alatri. La sua ultima è del 2013, Something Good.
Something good avrebbe dovuto essere a Venezia, ma venne rifiutato. La lettera protocollata di Barbera su carta intestata della Biennale la conservo ancora. Legga: “Il tuo film è rimasto in una short list di film preferiti… Poi, scelte drastiche si sono imposte, e non facili. Sia il numero limitato di posti a disposizione, sia per la stima – e, in qualche caso – l’amicizia nei confronti degli autori”. L’amicizia. Capisce? Alzai il telefono e chiamai Barbera: “Portatore sano di forfora – urlai –, quando te ti facevi le seghe a Torino, io chiavavo Naomi Campbell, pippavo con Lou Reed a Kansas City, aravo con il cazzo il mondo e guadagnavo miliardi, hai capito? Non voglio essere amico tuo, testa di cazzo”.

“Ho parlato troppo”, disse di se stesso un giorno.
Troppo forse no, però ho parlato con sincerità. La meravigliosa Ferilli mi disse: “Barbare’, ma a te te pagano pe’ di’ quello che dici?”. Sabrina è intelligentissima, ma credo non abbia mai detto quello che pensa veramente in un’intervista. E ha ragione. Fa bene. Dire la verità, in un Paese che ha perso l’epica, non paga. L’eroismo è roba per i morti e per qualche militare coraggioso.

Che lezione si porta dietro alla stagione numero 60?
Credo nella teoria ebraica della claudicanza. Si cade e ci si rialza. È solo inciampando che si cresce.

Il Fatto Quotidiano

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