Cumberbatch: “Mi tolgo il costume da supereroe e divento un lord eroinomane”

L’attore inglese dopo “Avengers” protagonista della serie “Patrick Melrose”

Benedict Cumberbatch continua a viversi come attore teatrale, a sentirsi legato al Royal Court e al Royal National. Si considera un prodotto delle serie Bbc come Dunkirk e Hawking, su Stephen Hawking. Ma chiedete ai tanti fan di Cumberbatch, vi risponderanno: «Sherlock Holmes». Vi parleranno del drago Smaug, da Lo Hobbit e poi di Alan Turing in The Imitation Game. Magari lo conosceranno come Dr. Strange, un altro dei supereroi dell’universo fantastico della Marvel.

Cumberbatch è sugli schermi in questi giorni come uno degli Avengers, al fianco di Robert Downey Jr., Mark Ruffalo, Scarlett Johansson, Chris Hemsworth e Chadwick Boseman in un film che si appresta a battere ogni record di incassi. Mentre alcuni suoi colleghi provano un vago senso di imbarazzo per questo tipo di film, lui si sente perfettamente a suo agio nel navigare tra i due mondi. È in buona compagnia, con colleghi come Anthony Hopkins, Gary Oldman e Tom Hardy. Cumberbatch ha dalla sua pure le «Cumberbitches» – le sue fan si definiscono così – un fatto che non lo scompone e anzi lo diverte. E così mentre partecipa al giro promozionale di Avengers, è orgoglioso di parlare anche di Patrick Melrose, una serie che ha co-prodotto, basata sui libri di Edward St. Aubyn, nella quale recita la parte di un lord arrogante ed eroinomane.

«Un personaggio molto danneggiato dalla vita, per il quale alla fine provi simpatia», sostiene. Si tratta di un ritorno ai suoi personaggi dark, insomma: «Intanto, con tutta la segretezza che circonda Avengers, è bello non dover nascondere informazioni e poter parlare con completa trasparenza. Anni fa mi è stato chiesto quali ruoli avrei voluto interpretare. Ho risposto: l’Amleto e Patrick Melrose. Perché ogni attore che legge quei libri reagisce come me, per la loro ricchezza, lo straordinario arco narrativo che coprono. Un viaggio nella condizione umana, 55 anni di vita di un uomo abusato da bambino dal padre, che poi cade nell’auto-distruzione fino al matrimonio e ai figli e alla salvezza, il tutto raccontato con momenti anche divertenti».

Si tratta, tra l’altro, di un viaggio nelle dipendenze. «Patrick vive un mondo molto bianco e molto privilegiato e quando tocca il fondo si ritrova vicino a gente che viene da ogni condizione e percorso di vita. Le sostanze hanno effetti pesanti sul corpo e sulla psiche, devi rappresentare quei momenti con accuratezza. E vale la pena esplorarli, perché sai che alla fine del tunnel c’è luce e c’è speranza. Esistono mezzi che permettono di uscire da quella cappa. Ma passiamo ad Avengers, perché sto parlando troppo non posso dire tutto».

Parliamo allora della segretezza che ha circondato il diciannovesimo film della serie Marvel. «Ho ricevuto la sceneggiatura, la stessa che si vede sugli schermi. E mi hanno dato solo una copia cartacea, dunque russi o chi per voi, non provate a piratare il mio computer. Non ci troverete niente!». Avengers si può leggere anche come la più grande concentrazione di attori non in competizione tra loro. «C’è un mercato – è la considerazione di Cumberbatch – e questa è un’industria, non solo arte o intrattenimento. Ho il privilegio di aver trovato un posto in questa industria, un po’ per fortuna e un po’ perché ho saputo capitalizzare questa fortuna lavorando duramente. Ma non mi sento mai in competizione con i miei colleghi. Quella di Avengers in particolare è una grande famiglia, è eccitante farne parte».

Ci si domanda che ne sarà del suo Sherlock Holmes. «C’è la sceneggiatura di una nuova stagione pronta da mesi ma non c’è ancora il via alla produzione. Lo farei, ma mai dire mai, c’è sempre margine per negoziare. Però ora tutti stiamo lavorando ad altri progetti e francamente non ci penso molto». Pensa ad affrontare nuovi generi, gli chiediamo allora. E lui: «C’è chi dice che dovrei fare più commedia. O magari un musical o un horror. Perché no? Più che a generi, però, sono interessato ai registi e alle persone con cui lavoro».

Lorenzo Soria, la Stampa

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