Mario Gelardi: “Ecco la Paranza. Rispetto a Gomorra è un altro mondo”

Regista e attore raccontano lo spettacolo scritto con Saviano sulla camorra dei ragazzini da sabato al Festival di Spoleto

Vanno a teatro quei ragazzi con le ali sulla schiena che sfrecciano per Napoli in moto, che si giocano tutto e subito, che non temono il carcere né la morte. Che sparano, spacciano, spendono. È La paranza dei bambini cantata da Roberto Saviano in modo dolente e forte che ora cerca una via immediata per farsi conoscere. E sceglie il palcoscenico del Festival dei Due Mondi di Spoleto per il debutto, sabato e domenica, carico di nuovi significati. Il testo è stato adattato da Saviano (che lo produce con Marche Teatro) e da Mario Gelardi che ne cura la regia, lo stesso che conduce con coraggio e sangue freddo quel Nuovo Teatro Sanità che è un gioiello in terra di violenza, sempre aperto, un teatro-casa, un punto d’aggregazione pure per chi il teatro non lo fa ma lì studia, pensa, guarda e magari si salva la vita. Con lui Carlo Caracciolo, vice presidente del Teatro, assistente alla regia e anche interprete.
Gelardi, come avete reso teatrale il testo?
«L’immaginario che trattiamo è diverso da quello delle serie tv, dei libri, delle inchieste giornalistiche. È un altro mondo rispetto a Gomorra. Volevamo che si aggiungesse qualcosa al già detto, anche per immagini. Perciò abbiamo scelto la graphic novel di Frank Miller».
Caracciolo, perché Miller?
«Perché restituisce i chiaro-scuri, immagini cupe come lo spettacolo che non lascia spazi ad altri universi, è qualcosa a parte, nel modo di muoversi, nella costruzione dei personaggi. Un fatto di stile».
Che camorra è quella che raccontate, Gelardi?
«Meno strutturata, non verticistica. Non sono figli di criminali, hanno scelto il crimine come regola di vita, hanno sapienza e mentalità per condurre un gruppo, il protagonista si ispira a Machiavelli. Sono più feroci perché agiscono pensando meno, ammirano l’Isis e quel “coraggio”, vanno per strada a sparare a chi capita loro sotto tiro».
La storia ricalca quella del libro?
«Il plot è uguale anche la scena dei tetti di Napoli. Molti personaggi sono raccolti in uno solo e i rapporti sono diversi».
Caracciolo, lei è un attore dai tanti volti.
«Interpreto i personaggi adulti; Copacabana che invoglia il protagonista a entrare in un certo giro, lo zingaro, il papà e don Vittorio l’Arcangelo, il capo dei capi. In fondo è uno spaccato più che un’istantanea della realtà, ragazzi alla Alpha Dog, il film di Nick Cassavetes, borghesi che assorbono il negativo dei quartieri in cui vivono. A teatro il discorso è più immediato. Io ho studiato all’École du Cirque a Praga e qui porto anche l’elemento “clownerie”. Usiamo un linguaggio di contaminazione tra italiano e napoletano».
Gelardi, difficile lavorare al Rione Sanità?
«Abbastanza. Siamo una periferia in pieno centro. Save the Children registra che da noi il tasso di abbandono scolastico è il più alto d’Europa, 32% con picchi del 37. L’anno scorso è morto Gennaro Cesarano, 14 anni, perché qualcuno per un atto di forza aveva deciso di andare in piazza a sparare».
Il teatro è unico, con opere regalate dagli artisti e una bella programmazione. Chi viene da voi?
«Tanti giovani che hanno sentito parlare di noi. Anche gli attori sono giovani, formati al nostro laboratorio, che è gratuito. Saviano finanziò tramite noi delle borse di studio, una soddisfazione saperli all’università».
Napoli non ama Saviano?
«Chi lo conosce lo adora ma in questa città ci si divide in tifoserie per ogni cosa. I giovani gli sono più vicini. Lui è un uomo di passione e vive l’alternanza dei sentimenti. I suoi scoraggiamenti sono anche i miei. Poi viene – altrettanto prepotente – la gioia. Lo entusiasmano le nuove generazioni che trovano altre strade da percorrere e un’alternativa di vita».
Ma come vi sostentate?
«Più facile è trovare riconoscimenti nella comunità europea che da noi. Vengono giornalisti stranieri a capire appunto come ci sostentiamo. Con i bandi europei e con le fondazioni che danno una mano alla scuola. “I tempi della realtà sono diversi dai tempi delle istituzioni”, lo dice sempre padre Antonio Loffredo, il parroco della comunità. E il nostro è un teatro di comunità».
Andrete in tour con lo spettacolo?
«Da ottobre in tutta Italia e anche a Torino. L’anno scorso siamo stati un mese e mezzo in Piemonte con un altro spettacolo. Ci troviamo molto bene».
Caracciolo, contenti di debuttare in un festival tanto importante come quello di Spoleto?
«Molto, anche se al San Simone non ci hanno dato tutti gli strumenti tecnici di cui avevamo bisogno. Partiamo con un handicap, in versione non integrale. Un peccato senza ombre e luci. Un aborto delle idee. Ma i festival sono così».

La Stampa

Torna in alto