I ragazzini non salvano il mondo. Lo riprendono con lo smartphone

Gli adolescenti problematici protagonisti assoluti di questo Festival. Cresciuti in famiglie a pezzi, insieme vittime e carnefici della società

Altro che il mondo salvato dai ragazzini, come voleva la Morante. A Cannes bisogna salvare i ragazzini dal mondo. Nei casi estremi, salvarci dai ragazzini. Perfino nei film in costume, come The Beguiled di Coppola figlia. Quando Nicole Kidman e le sue fanciulle della scuola sudista per Rosselle O’ Hara devono sbarazzarsi del soldato yankee violento, l’idea viene alla più piccola: «Gli piacciono tanto i funghi…». Non male, come debutto in società.
Non parliamo, poi, del giorno d’oggi. Il Festival concia per le feste la famiglia: non ce n’è una che regga. I figli bambini o adolescenti sono tutti difficili o violenti, vittime e carnefici insieme di una società che evidentemente per i venerati maestri giudicano alle soglie dell’autodistruzione. E a rimetterci, ovvio, sono i più deboli.
Talvolta vendicandosi, come il ragazzino terribile che esige una vittima sacrificale per placare gli dei irati in quella rilettura del mito di Ifigenia (quella in Aulide, in questo caso; negli Usa attuali, nel film) che è L’uccisione del cervo sacro di Yorgos Lanthimos. Ma anche la bambina di Happy End di Haneke, ospitata da nonno Trintignant e zia Huppert nella loro bella casa altoborghese di Calais perché maman è ricoverata in seguito a un’overdose di tranquillanti, quanto a perversità non scherza. E filma tutto con l’onnipresente e onnipotente telefonino, l’agonia del suo criceto come l’ultima toilette della madre (che forse, ma non è esplicitato chiaramente, è proprio lei a spedire all’ospedale).
I figli hanno tutti e sempre i genitori divorziati. Come le due bambine che irrompono nella vita del critico d’arte fighetto di The Square proprio mentre va a rotoli, e complicandogliela ulteriormente. Siamo ai confini della commedia, ma si ride amaro. Come nelle Meyerowitz Stories del Woody Allen di riserva, Noah Baumbach. I conflitti intergenerazionali con complicazioni psicanalitiche nella famiglia ebrea newyorchese sono quelli già visti tante volte (ci si diverte lo stesso, però). Del tutto contemporanea, però, è la figlia di Adam Sandler che, al primo anno di università con ambizioni da regista, inizia autoriprendendosi con il solito telefonino in una serie di soft porno demenziali, con gli adulti costretti pure a farle i complimenti per la creatività.
Passando dal concorso a «Un certain regard», stesse situazioni. Nell’Atélier di Laurent Cantet, il ragazzino ribelle Antoine mette in difficoltà la romanziera di fama arrivata nella banlieue difficile ad animare un gruppo di scrittura con intenti di riscatto sociale. E la figlia di Battiston-Battisti di Dopo la guerra della Zambrano è costretta ad abbandonare su due piedi le amiche, la pallavolo e gli studi per il «Bac», la maturità francese, perché il papà ex terrorista deve lasciare in fretta Parigi dopo la revoca della «dottrina Mitterrand». E, con il tipico egoismo dei pari suoi, intende portarsi dietro la figlia.
Forse non è un caso che l’unica ragazzina «positiva», diciamo così, portavoce anche di un messaggio animalista e anti-consumista politicamente stracorretto (e anche un po’ stracotto), sia la giovane Mija di Okja, che parte al salvataggio del suo amico animale minacciato dalla multinazionale cattiva. Si tratta infatti di una delle famigerate produzione Netflix, destinate a un consumo via Internet, ben più vasto dei quattro gatti del cinema autoriale e quindi in qualche modo obbligata a un messaggio virtuoso.
Come poi se fosse colpa di questi ragazzini di essere in crisi. Lo spiega bene il tostissimo Nelyubov del russo Andrey Zvyagintsev, dove Boris e Genia sono talmente occupati a litigare che non si accorgono nemmeno che nel frattempo il figlio Aliocha, 12 anni, è sparito. Non è un mondo facile per nessuno; per i più piccoli, meno ancora.

di Alberto Mattioli, La Stampa

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