C’erano una volta / Marina Ripa di Meana

La nobildonna che per amore poteva spezzare una gamba

Il ricordo del marito: «A Parigi, accecata dalla gelosia, mi ruppe la tibia con un calcio. Nel suo cuore venivo dopo il pittore Angeli, ma non avrei mai potuto lasciarla»

(di Cesare Lanza per LaVerità) È un rimorso, il primo pensiero che mi viene in mente, e mi turba, quando ricordo Marina Ripa di Meana, scomparsa alcune settimane fa (nome all’ origine Maria Elide Punturieri: Reggio Calabria, 21 ottobre 1941 – Roma, 4 gennaio 2018).

A Milano, nel giugno dell’ anno passato, organizzai una manifestazione (consentitemi di dire, importante) per l’assegnazione del Premio Socrate, un movimento di opinione (aperto a tutti) che ho fondato anni fa, per la riaffermazione del valore del merito. Premiammo personaggi di indiscutibile autorevolezza: Urbano Cairo ed Ernesto Pellegrini, Maria Bianca Farina ed Ernesto Mauri, Carlo Clavarino, Andrea Cornelli, Lella Golfo. Avrei voluto inserire Marina, ma lei – com’è noto, già gravemente malata – mi disse che aveva un altro impegno e mi propose di delegare qualcuno. Le risposi che il regolamento esigeva la presenza dei premiati e la sostituii con un’altra signora. Il rimorso è semplice: avrei potuto fare un’eccezione. Non me la sentii e oggi me ne sono pentito.

Per la sua totale libertà di mente Marina era certo degna di un premio al merito. Di lei si sa tutto: ha scritto alcuni libri sulla sua vita e altri sono stati scritti su di lei; le è stato dedicato perfino un film. Per rievocarla, ho scelto di affidarmi al suo secondo marito, Carlo Ripa di Meana, traendo spunti da una lunga e schietta intervista con lui (i concetti, dopo anni, sono sempre validi). Lo avevo pregato di aiutarmi a capire il mistero antropologico che riguardava lui e Marina. Gli dissi: «Quando vi uniste, la tua fama di maschio seduttore era dilagante. Come le sue prodezze di femmina seduttiva, che animavano giornali e salotti. Tutti pensavano a un flirt stagionale, e – invece – ecco un miracolo: di lustro in lustro, l’unione di due campionissimi della trasgressione è riuscita a resistere. Di più: non è mai stata scossa da tempeste, appariva infrangibile. Com’era possibile?». «Eravamo agli antipodi. Abbiamo cercato di avvicinarci, provando a mantenerci diversi. Nessuno dei due ha cercato mai di evangelizzare l’altro. E nessuno dei due si è mai sentito subalterno. Un miracolo, appunto», rispose. «Marina era un uragano, io temevo di essere travolto. Mia mamma, che poi invece le ha voluto molto bene, pensava che fosse squilibrata».

Chiesi a Carlo quale fosse il segreto di Marina, per conquistarlo e legarlo. «Lei è una natura incendiaria». A rischio perpetuo? «Sì». Una mina vagante? «Sì». E non sei scappato? «No. Ma ho avuto mille volte la tentazione di farlo. Marina però ti trascina in una tale passione, esprime un tale desiderio di amore da investirti e coinvolgerti senza scampo. Ed è impossibile liberarsi». Ma come sei riuscito a convivere? «È indispensabile un carattere ironico, sdrammatizzante. Mai prendere alla lettera quello che dice e quello che Marina fa».

Carlo mi aiutò poi a capire la leggendaria gelosia di Marina, raccontandomi due episodi che potrebbero figurare in un romanzo di avventure o in un film di azione. Con un violentissimo esordio: «Eravamo a Parigi, all’inaugurazione del centro Pompidou. Ero presidente della Biennale, in compagnia del ministro della Cultura e di Jacques Chirac, allora sindaco di Parigi. Al mio fianco Gae Aulenti, a cui all’epoca ero legato. Arrivò Marina, gelosissima, e senza una parola mi inflisse un calcio alla gamba sinistra: mi spaccò la tibia. Sotto gli occhi di tutti».

Uno scandalo? «In primo luogo un dolore terribile. Una gamba spezzata! E mi dissi: “Sono in grave pericolo”. Difatti, dopo un po’, ci fu un secondo fattaccio». Confesso che la rievocazione di Carlo Ripa, pacato, mi apparve irresistibile, e anche oggi lo è, nel ricordo. «Anche quella volta eravamo a Parigi, nel ’77. Avevo avuto una storia dolce e tenera con una giornalista americana, Flora Lewis, che scriveva sul New York Times…» Gli chiesi: scusa, ma tu stavi con Marina o con Flora? «La situazione era un po’ confusa. Flora era appena stata ospite nella mia casa a Venezia, dove convivevo con un caro amico. E la casa era un porto di mare, tutti arrivavano, si fermavano quanto volevano, ripartivano Flora era mia ospite, quando arrivò anche Marina, che immediatamente, con la sua personalità, prese possesso della casa. Il suo modo di affermare un dominio psicologico, di marchiare il territorio, era di girare integralmente nuda, guizzando allegramente da un piano all’altro, senza problemi di pudore. Flora, puritana, era sopraffatta».

E a Parigi cosa successe? «Arrivai con Marina e prendemmo alloggio in un albergo e decisi di andare a trovare Flora, che aveva una bellissima casa in rue de Solferino. Ma rimasi da lei un po’ più del previsto». Espressione elegante, che nasconde un retroscena chiaro, presumo anche per Marina… «Quando tornai in albergo, da lontano vidi le auto della polizia, una piccola folla di persone Pensai subito a un fatto di sangue. Il portiere mi corse incontro con le mani tra i capelli “Madame, madame!” Mi sentii ghiacciare il sangue. In breve, Marina aveva distrutto letteralmente la nostra camera, buttando tutto dalla finestra e dalle scale. Aveva spaccato specchi, vetri, oggetti, mobili, lampade: c’erano schegge di vetri dappertutto, e anche un lago di sangue perché Marina si era ferita. Un disastro indescrivibile. Il chiasso, la polizia, le indagini Marina aveva buttato dalla finestra anche le mie valigie. Per fortuna il lancio non aveva provocato morti e feriti, ma le valigie – bellissime – non furono mai ritrovate. Rubate da qualcuno che approfittò del trambusto». E neanche allora pensasti di scappare?! «No! Pensai: “Una donna così o si lascia o si prende. E la presi”».

Per capire Marina (in apparenza incomprensibile come quasi tutte le donne di straordinario fascino) il racconto di Carlo mi è prezioso. «Ho capito di avere una missione: salvarle la vita. A parte la mia gamba spaccata, la camera d’albergo distrutta, le vere ferite erano le sue. Capivo che Marina aveva bisogno di me. Io le ho dato equilibrio. E lei mi ha dato slancio vitale. Marina è stata sincera e diretta, come mai nessuno nella vita. Non si faceva intimorire da nessuno e non arretrava di fronte a niente. Tutti ammettono che lei era sincera, nel bene e nel male: questo spiega la sua popolarità. Marina non ha avuto alcun ruolo istituzionale, eppure è esistita nella vita pubblica, i suoi interventi destavano sempre interesse perché erano veri: la sua identità, il suo carattere erano il suo ruolo. Quando diceva qualcosa, a torto o ragione, non era frenata, né ispirata da niente e nessuno. Io l’ho tenuta al riparo dal peggio: lei mi ha trasmesso i brividi della vita. Non ci si annoiava mai con lei».

Anche Carlo era molto geloso, ma in modo diverso. E ricordo le sue confidenze come un documento prezioso, forse di qualità inarrivabile, per un maschio mediterraneo. «La mia gelosia era riferita al passato. Con Marina non ne abbiamo mai parlato esplicitamente, ma io ho sentito, avvertito che il vero grande amore della sua vita non sono stato io, bensì il pittore Franco Angeli. Lei lo ha amato in modo incondizionato. Io nella sua vita non sono riuscito ad occupare lo spazio che ha avuto Angeli. Da frasi, ricordi, sensazioni capisco bene la profondità del legame che Angeli e Marina hanno avuto. Per otto indimenticabili anni. E del resto era ovvio: erano giovani, bellissimi, sregolati. Lui era un grande artista, anche se si è consumato e perso, in quel giro di grandi pittori romanticamente tanto avvincente che comprendeva Tano Festa, Mario Schifano… E dunque mi sentivo secondo, nel cuore di Marina, rispetto ad Angeli. Sentimentalmente avrei voluto che non fosse così, ma intellettualmente capisco che questa è la verità. E ne sono stato, amaramente, geloso»

Ho scritto tante volte di Marina e di Carlo, ho anche cercato di capire se davvero la loro fedeltà non sia mai stata infranta da trasgressioni e altri innamoramenti. Di Marina non so nulla. Carlo mi confidò invece la sua passione adolescenziale per Lea Massari, che forse – forse – si riaccese in età matura e senile («era un colibrì lieve, fine, meraviglioso»). Ma la rivelazione più avvincente fu una relazione che Carlo ebbe con l’ultima moglie di Giangiacomo Feltrinelli, Sibilla Melega. «Non eravamo ancora sposati, ci trovavamo in una bella casa in Sardegna, ospiti di amici. C’ era anche una donna che mi piacque subito moltissimo, appunto Sibilla. Nacque una forte attrazione, qualcosa che mi prendeva. Fuggimmo di nascosto in Austria, ci rifugiammo in Carinzia, in una casa di Giangiacomo, per varie settimane. Una fuga senza spiegazioni, da clandestini. Avevo lasciato credere, se ricordo bene, di essere partito per la Spagna». Da Sibilla seppi in seguito qualche particolare, davvero romanzesco, come nella narrativa dell’Ottocento, sulla loro storia. Nella vacanza in Sardegna Carlo e Sibilla erano sorvegliatissimi, non riuscivano ad appartarsi. Si lasciavano messaggi teneri, nascondendoli nei libri della biblioteca. Poi, un giorno, decisero di sparire, senza dire nulla. Con Marina non ne parlai mai, temevo – pubblicando quei segreti – di aver incrinato qualcosa. In realtà lei fu di livello (intellettuale, sentimentale, psicologico) superiore: finse di sapere e non sapere, capire e non capire; infine, senza drammi né lagne, perdonò. E come finì, nel racconto di Carlo?

«Mia madre mi riportò alla ragione. Lei era una donna rigida, severa, fredda, razionale Non aveva avuto simpatia immediata per Marina. Eppure mi telefonava per dirmi: guarda che lei non sta bene Mi turbò, diede voce alla mia coscienza. E tornai con Marina, senza staccarmi mai più».

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