BENNATO: “L’ISOLA CHE NON C’È VA TROVATA, IL PIÙ IN FRETTA POSSIBILE”

Dall’infanzia a Bagnoli (“quando mio padre ci portò a vedere Peter Pan al cinema”) al juke box in cui ascoltava i Platters e Elvis passando per i tempi difficili che viviamo e il futuro del rock and roll

bennatoChi lo direbbe che il 23 luglio compie 70 anni, Edoardo Bennato. E va bene che oggi i 70 sono i nuovi 50, proprio come gli anni che ha trascorso sul palco e in cui è sbocciata la musica della sua vita, il rock and roll. Non glieli daremmo noi, non se li sente addosso lui, adrenalinico e for ever young; tant’è che all’inevitabile nostra domanda in materia, glissa. E si concentra sul suo fitto presente: sempre in tour, tra le altre cose sarà l’ospite di punta del Summer Jamboree di Senigallia. L’album dei pur gloriosi ricordi, insomma, può attendere. Ci sarà modo e tempo per ripensare ai 28 album fin qui pubblicati, alla sua laurea in Architettura, ai suoi classici senza fine come Un giorno credi, La torre di Babele, Sono solo canzonette, Il gatto e la volpe, Il rock di capitan Uncino, Tu vuoi l’America, W la mamma. Ok, Italia?
Chitarra e fisarmonica; voce e testi lirici e taglienti, impegnati ma al netto di retoriche di partito, refrattari a ogni conformismo e svenevolezza verso il potere; giubbino in pelle e capelli ricci scarmigliati; occhiali specchiati e pelle scolpita dal sole; rock e blues primigeni nell’anima, miscelati con piglio proto-punk e sangue sonoro partenopeo-mediterraneo. “Guardando sempre avanti, ma tenendo conto della tradizione”. Il cortile di Bagnoli alla periferia di Napoli, all’ombra pestilenziale dei fumi dell’Italsider: fu quello il primo palcoscenico di Edoardo Bennato, in trio coi fratelli Eugenio e Giorgio nei profondi anni sessanta. Amatissimo dalla gente e molto meno dal “sistema”, tra i settanta e gli ottanta popolare come lui è stato forse solo Lucio Dalla, un altro magnifico irregolare. In quell’epoca Edoardo macinava record. Fu lui a inaugurare il ritorno dei grandi concerti dal vivo negli stadi, nel giugno del 1978 al San Paolo di Napoli, dopo il “processo a De Gregori” degli autonomi e le devastazioni durante i live di Santana, Led Zeppelin e Lou Reed; fu il primo a riempire San Siro, con oltre sessantamila persone e ben prima di Vasco e Ligabue il 19 luglio del 1980. Un successo edificato dal basso, il suo. Spettacolo dopo spettacolo, spontaneo, col passaparola, in autarchia. E dire che questo lungo viaggio aveva rischiato di naufragare in partenza. Subito dopo l’uscita del suo album inaugurale del 1973 Non farti cadere le braccia. Il direttore della Ricordi lo chiamò, e lo invitò a desistere: “la tua voce è sgraziata, i tuoi pezzi non passano, non puoi funzionare né in radio né in televisione”. Che lungimiranza.

L’ultimo disco dell’anno scorso, che l’ha riportata alla ribalta, si intitola ‘Pronti a salpare’. In che senso?
“Pronti a salpare è dedicato a noi, quelli del cosiddetto “sistema occidentale”. Siamo noi che dobbiamo cambiare modo di pensare: i migranti scappano dall’inferno, dalle guerre e sono sempre pronti a salpare. Non si tratta di buonismo spicciolo ma è un’opportunità a cui, volenti o nolenti, non possiamo sottrarci”.

Ma è vero che hai già un altro album pronto?
“Continuo a scrivere canzoni, faccio mia una frase che mi disse a casa sua Fabrizio De André, di cui ero amico: “Il giorno che non hai più niente da dire, smetti”. Ecco, ho la presunzione di avere ancora qualcosa da dire”.

Cosa significa essere cantautori oggi?
“Tu sei forte, tu sei bello, tu sei imbattibile, tu sei incorruttibile, tu sei un… cantautore”.

‘Sono solo canzonette’, o possono ancora cambiare il mondo?
“Una canzone non può cambiare il mondo. Forse non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco: può però servire ad accendere una scintilla a livello emozionale”.

Segue i cantautori dell’ultima generazione?
“Mi piacciono diversi di loro”.

In quale misura l’elemento favolistico e fanciullesco ricopre un ruolo fondamentale nella sua musica?
“A sei o sette anni, con i miei due fratelli Eugenio e Giorgio, i nostri genitori ci portarono al cinema a vedere il Peter Pan di Walt Disney e da allora “la chitarra era una spada e chi non ci credeva era un pirata”.

Com’è nata la sua storia d’amore col rock’n’roll? Ha mai conosciuto tentennamenti o crisi?
“C’era questo jukebox in viale Campi Flegrei, in un bar vicino la ferrovia Cumana. Lì ascoltai i Platters, Elvis e altri eroi del rock. Abitando a Bagnoli (Napoli), avevo la possibilità di sintonizzarmi sulla radio americana (Nato) che trasmetteva questa musica celestiale e da allora ho capito che potevo avere tanti dubbi ma nessun dubbio sul rock ‘n roll”.

L’attentato al Bataclan di Parigi sanguina ancora: perché i jihadisti odiano il rock?
“Non credo che la mattanza del Bataclan sia stata perpetrata contro il rock in quanto simbolo occidentale da abbattere; credo sia stata utilizzata per avere una maggiore eco, perché si trattava di giovani riuniti ad ascoltare musica. Diversa storia è l’attentato a Charlie Hebdo“.

Quest’età contemporanea, attanagliata da un terrorismo “incorporato” e indiscriminato, la spaventa? Questi si ammazzano compiendo stragi immani “per raggiungere il paradiso”. Come uscirne?
“Una via di uscita potrebbe essere quella di prestare attenzione alle periferie del mondo, ai disagi sociali, alle diseguaglianze, all’integrazione reale nelle nostre città (europee). Insomma, avere le antenne dritte e cercare per quanto possibile di limitare i danni”.

Il rock è morto, si vaticinò all’inizio degli anni novanta. A distanza di un quarto di secolo, possiamo affermare che chi lo predisse si è sbagliato clamorosamente?
“Il rock è vivo e vegeto. In questo momento nel mondo, nelle cantine o nelle sale-prova, ci sono centinaia e centinaia di band che stanno provando soluzioni musicali per conferire sempre nuova linfa al rock”.

Quindi le vie del rock erano e restano infinite?
“Le vie del rock sono infinite. Sembra una frase fatta, ma credo veramente che ci siano ancora strade da percorrere, nuove formule da immaginare. Ci ho provato in brani come Zero in condotta, dove adopero un linguaggio totalmente non convenzionale”.

Sta di fatto che i ragazzi d’oggi, i cosiddetti millenials, sono cresciuti a pane e hip-hop (con un po’ d’elettronica). Apprezza, per dirne due, Kanye West e i Daft Punk?
“I Daft Punk mi piacciono abbastanza, un po’ meno Kanye West. Comunque l’Hip Hop è interessante quando i testi sono giusti”.

Visto che ci siamo: che musica ascolta con maggior diletto ultimamente?
“Tutto quello che posso. Il nuovo rock mi piace: ci sono band nell’area californiana che sono veramente forti”.

E dei nuovi supporti di diffusione musicale, della musica compressa in uno smartphone, dello streaming imperante, che ne pensa?
“Sono affascinato dalle nuove tecnologie, anche se confesso di non riuscire a utilizzarle sempre al meglio: è una macchina che ci salva la vita”.

C’è ancora spazio per le utopie, per le Isole che non ci sono? Ci crede ancora?
“Il concetto di utopia che esprimevo ne L’Isola che non c’è viene oggi superato da quello che sostengo nel brano Io vorrei che per te. Prima potevamo permetterci di crogiolarci nell’idea che, essendo un’utopia per sua stessa definizione, era irraggiungibile: l’importante era non smettere mai di cercarla. Ora l’Isola bisogna trovarla a ogni costo, senza perdere tempo: “Un’isola vera dove davvero si va”.

Ha sempre composto vibranti avvelenate contro il potere, seppure in chiave ironica e allegorica.
“Il rock, come da statuto, prevede di scardinare cliché, luoghi comuni e in genere di evitare di percorrere strade convenzionali. Esattamente l’opposto della musica cosiddetta leggera, che è rassicurante. Per intenderci, il sound che ascoltano (salendo in ascensore) i Blues Brothers nella scena dell’omonimo film, che è l’esatto contrario di tutto quello che si era udito nella colonna sonora fino a quella scena”.

L’Italia è ancora un “paese dei balocchi”?
“In qualche modo sì, se penso a come vengono gestiti i flussi migratori. Bisognerebbe cercare di coniugare al meglio l’accoglienza e la sicurezza”.

È sempre stato un lupo solitario e ha sempre fatto corsa a sé. La coerenza e la schiettezza, le sue bussole. Si è fatto più amici o più nemici nell’ambiente?
“Se devo fare un’analisi a posteriori, forse dire sempre quello che mi va mi ha procurato più nemici che amici. Ma tant’è”

E se dovesse scrivere un bel blues R’n’R dei suoi, dedicato a Napoli?
“Stanca, rassegnata, innocente, invasata, nuda, svergognata, tradita, condannata… ma è la mia città”.

Maurizio di Fazio, La Repubblica

Torna in alto