ALDO MONTANO: «RALLENTA, TESORO»

Ottobre 2015, un crac alla spalla. Sei mesi dopo, l’intervento: «Non volevo andare in Brasile tutto bellino e vestito di bianco». Ora che parte per la sua quarta Olimpiade, Montano sfodera la spada. E manda un messaggio alla fidanzata

aldo montanoTrentasette anni, due caffè e qualche sofferenza. «Ho smesso di fumare da due settimane. Mi volavano via due pacchetti al giorno e il mio medico mi ha fatto notare che sto invecchiando: “Aldo, quindici anni fa avevi una capacità polmonare di 9 litri, oggi sei a poco più di 6, te la dai una regolata?”. Le sfide mi piacciono e per ora mi tengo a freno, ma è più facile vincere a Rio che abbandonare il viziaccio».
Aldo Montano, come già suo nonno e suo padre, andrà all’Olimpiade ad agitare una sciabola. È la quarta volta. Ad Atene, nel 2004, questo livornese dalle fidanzate appariscenti e dal sorriso largo vinse l’oro: «Esserci, questa volta, è già un miracolo».
Per l’età?
«A ottobre dell’anno scorso sono andato in palestra e nel fare un esercizio mi sono sbilanciato e ho sentito un crac. Eravamo nell’imminenza delle qualificazioni, la stagione stava andando bene e non ci ho fatto troppo caso. Passato un mese il dolore era aumentato, e dopo altri due era diventato insopportabile. A febbraio avevo tre tendini rotti. Il medico mi ha detto: “Se vuoi partecipare puoi farcela, ma se vuoi competere davvero devi operarti”. È stata una scelta difficile. Mi sono confrontato con l’amico, con lo specialista, con il commissario tecnico, e poi ho avuto la consultazione più importante, quella con me stesso: “Vuoi davvero andare in Brasile tutto bellino e vestito di bianco solo per una comparsata?”. Mi sono risposto di no e mi sono operato».
L’importante non è partecipare?
«Negli anni ho imparato a vincere, a perdere e ad amare anche la sconfitta. Fa parte del gioco, mi fa incazzare e quindi mi tiene vivo. Però lo sportivo non vive di ricordi. Si dimentica in fretta di quel che ha vinto ed è schiavo di un meccanismo. Se si ferma o si sente arrivato, è già finito».
Com’è la vita vista dal reticolato di una maschera?
«Un po’ più grigia e un po’ più sfocata. Pensi che io la scherma non volevo neanche affrontarla. Ci fu una lotta furibonda tra me e mia sorella. Lei era donna e poteva fare un po’ come le pareva, io ero maschio e c’era una questione di discendenza. Provai ad alzare il ditino e me lo abbassarono subito: “Che cosa vorresti fare te? Fila in pedana”».
La discendenza, diceva.
«Mio nonno, la persona che mi ha fatto appassionare alla scherma, era stato all’Olimpiade di Berlino nel 1936. Mio padre a quella di Monaco nel 1972. Altri strettissimi familiari avevano vissuto nell’epica dei cinque cerchi. Non avevo molta scelta, ma la scherma da bambino al circolo Fides era poco più di un doposcuola».
La sua Livorno da adolescente?
«Come nel film Ovosodo di Paolo Virzì, nel quale recitarono tanti amici. I Bagni Pancaldi, le havaianas ai piedi, il bagno di notte, la Terrazza Mascagni, il panino di Giovanni, il bagno di notte per poi asciugarsi in motorino con il vento».
Era già un conquistatore?
«Ero timidissimo, schivo, impaurito dalle ragazze. Quando uscivo con i miei amici, con il Ciccio, il Descia e con il più “ficchino” Uccio, stavo sempre un passo indietro e in avanscoperta mandavo loro. Con i miei ricordi ho un rapporto sereno. Un po’ di Livorno la trovai anche ad Atene».

Malcom Pagani, Vanity Fair

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